dal trampolino

La casa dei racconti: intervista a Racconti edizioni

Ne abbiamo già parlato, per esempio qui: le case editrici non puntano sulle raccolte di racconti, il lettore preferisce i romanzi.
Per fortuna c’è qualcuno che non ci crede e fonda una casa editrice dedicata esclusivamente alla forma breve. Si tratta di Racconti edizioni, da un anno in libreria con le short stories di John Cheever, Eudora Welty, Mia Alvar, Virginia Woolf, Elvis Malaj, giusto per citare qualche nome del loro catalogo. Insomma, Stefano Friani e Emanuele Giammarco smontano i pregiudizi dell’editoria contemporanea con, dalla loro parte, grandissimi scrittori.

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Cominciamo con una domanda classica: come nasce la vostra casa editrice?

Due allora ragazzi, ora ex ragazzi avendo scavallato i trenta, stanchi di attendere la propria chance per entrare nel mondo dell’editoria e stufi di rinnovare quel pernicioso e nefasto meccanismo di superfetazione della formazione che ti fa inseguire stage retribuiti e molto più spesso non retribuiti in fila uno all’altro, hanno deciso tomi tomi cacchi cacchi che erano abbastanza in grado di buttarsi nel mare magnum dell’editoria e fondare una casa editrice. L’avevano fatto altri prima di loro, e perché no, perché non provarci? Non c’era molto da perdere.
Siamo figli di una crisi e gli dobbiamo molto alla crisi. Trent’anni fa ci saremmo intruppati – o magari, forse, non saremmo riusciti nemmeno a intrupparci – dentro una casa editrice già formata, facendo tutte le tappe del caso, fino a forse raggiungere la pensione come redattori storici scazzati che non vogliono vedere un libro manco in cartolina. Per come è andata invece ci siamo gettati in mare aperto – tuffati, verrebbe da dire visto dove uscirà l’intervista – e abbiamo dovuto imparare a fare tutto: ragionare di concerto con la promozione, la distribuzione, fare pacchi, schede editoriali, comunicati stampa, bozze e chi più ne ha più ne metta. Ero un disastro con lo scotch solo un anno fa.

Avete fatto qualcosa che nessun altro in Italia ha avuto il coraggio di fare: puntare sui racconti. Perché le altre case editrici sono restie a pubblicarli e, anche quando lo fanno, cercano di non usare “la parola con la r” sulla quarta e sui risvolti?

Their loss our gain. Ogni tanto alle fiere càpita che salti fuori qualcuno che, attirato dalla copertina, prende in mano un nostro libro, lo esamina, legge lo strillo, passa al risvolto, magari addirittura alla biografia dell’autore, e poi ci chiede di parlargliene. A un certo punto del discorso si allarma, subodora la truffa: “Ah! ma sono racconti! No grazie, non leggo racconti”. Non leggono racconti perché non sono abituati a leggere racconti, hanno questo pregiudizio incancrenito che ormai non gli toglierai mai dalla testa, vogliono il libro che “li prende”, che non “ti fa staccare dall’inizio alla fine”, che “vuoi sapere come va a finire”.
Non sono tanti, ne càpita di media uno a fiera, e se non hai mai letto racconti forse quell’uno sei tu.

Qual è per voi la grandezza del racconto? Cosa ha in più rispetto al romanzo? 

Semmai cos’ha in meno: le pagine. Se volessimo tracciare una linea di demarcazione netta fra queste due forme non potrebbe che essere quella della durata, dello spazio. E del resto cosa sono le forme letterarie se non una diversa organizzazione di spazio e tempo? Spesso si parla del racconto come di un genere, quasi fosse il noir o il fantasy, ma è una definizione incorretta e non diremmo la stessa cosa se parlassimo di poesia e romanzo o poesia e racconti. Esistono poesie e racconti epici come gotici, ma se qualcuno ha notizia di poesie hard boiled mi scriva che sono curioso. Sono cose radicalmente diverse perché hanno una struttura profondamente diversa. Questo non comporta che il racconto sia meglio o peggio del romanzo, e noi di sicuro non lo pensiamo. Da lettori siamo stati a pesca nel Michigan con Nick Adams, nelle lavanderie a gettone di Carver, al postoristoro con la Giusy, abbiamo solcato il Mar delle Blatte con l’ineffabile Variago e siamo rimasti in coda sull’autostrada per Parigi con Cortázar: be’, ci è piaciuto talmente tanto che abbiamo pensato di rimanerci.

Come avete scelto i primi autori pubblicati dalla vostra casa editrice? C’è qualcosa che accomuna tutti i libri – e gli scrittori – del vostro catalogo?

Sì, a un certo punto della loro vita terrena o ultraterrena sono diventati autori di Racconti. Poteva andargli meglio.
Volessimo proprio indicare un fil rouge nel nostro catalogo basterebbe andare a vedere i percorsi, spesso anche biografici, dei nostri autori. Il più delle volte si tratta di stranieri della propria lingua, scrittori che per una ragione o per l’altra hanno raccontato il loro mondo come un altrove, senza mai farlo proprio del tutto e hanno balbettato nella lingua, per dirla come la metterebbe Deleuze. Ma prescindendo dal ragionamento sull’identità, che volendo è un tema trasversale a tutta la letteratura, ovviamente avocandoci un nome come Racconti non potevamo esimerci dal pubblicare anche dei classici che, per il vecchio anatema editoriale sui racconti, non venivano più pubblicati o erano stati deliberatamente trascurati negli anni.

Siamo una rivista di narrativa brevissima e non possiamo che fare il tifo per i racconti insieme a voi. Come credete che cambierà nei prossimi anni il paesaggio editoriale? Vedete una possibilità di riscatto per la forma breve?

Mi pare che, almeno a giudicare dalle riviste e dai concorsi che micologicamente spuntano in ogni dove e dalla nascita non irrilevante di una casa editrice dedicata ai racconti, questo riscatto sia già piuttosto conclamato, e se fosse una rivoluzione saremmo quasi al termidoro e alle purghe dei romanzieri prolissi. Scherzi a parte, credo che sia un errore anche strategico fare di un ghetto la propria forza, ragionare in termini conflittuali col resto dell’editoria ecc. Mi sembra che molti editori abbiano raccolto la palla al balzo di questa rinascita dei racconti, e che comunque racconti – bene o male – si siano sempre pubblicati e si continuino a pubblicare. Mi comincio a domandare: quando sarà la volta delle biografie? Amanti delle biografie fatevi sentire! Basta con questa emarginazione inaudita, perché non ripubblicano l’autobiografia di Churchill in quattro volumi? Eh, perché?! Maledette lobby editoriali.

Avete già qualche altro nome italiano in programma?

In primavera uscirà un libro, un secondo esordio, quello di Michele Orti Manara, nutrito di letture che restano sempre sotto la superficie senza mai affiorare a galla, scritto con una penna di una levità preternaturale e mediato da uno sguardo infantile che si va disingannando un po’ controvoglia, nel desiderio improbabile di non diventare mai cinico. Le storie di questo “manuale della disillusione” sono piccole cose con le zampe, esserini animati e indifesi che, per dirla con Kawabata, potrebbero stare “in un palmo di mano”. Questi manganelliani “mattoni della materia” sono spesso poche righe capaci di tratteggiare un’ascesa sociale tutto sommato mai soddisfacente fino in fondo, come in Disillusione del sottoposto: il caffè non è mica poi così buono ai piani alti.

In autunno invece sarà la volta di Marco Marrucci, al suo esordio un Bolaño imbevuto di filosofia e cresciuto in riva all’Arno, che darà alle stampe dieci racconti immaginifici che assomigliano ai capitoli di un volume geografico che passa in rassegna bizzarrie e curiosità disseminate in ogni angolo del pianeta. Di solito un almanacco del genere è dedicato agli animali, alle piante, ai fiumi, alle catene montuose o alle città. Questo è dedicato a un pugno di uomini la cui esistenza non può essere provata, ma neppure esclusa a priori. Sono storie in cui all’editor è domandato l’impossibile: togliere o spostare anche solo una parola rischia di far venir giù un castello edificato con cura e meticolosità certosina in vista di un disegno calato dall’alto, quasi che questi racconti non fossero che dimostrazioni empiriche.

La redazione

 

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