Tuffi liberi

Uno spritz

Non lo vedevo da tre anni e se devo essere sincera non avevo troppa voglia di uscire con lui stasera; l’ultima volta, passata mezz’ora, non sapevamo più cosa dirci. Dopo quattro anni di convivenza ti aspetti e ti senti anche un po’ in dovere di avere qualcosa da raccontarti e invece persino una cena può diventare un tempo troppo lungo da riempire. È per questo che gli ho proposto uno spritz. È invecchiato. Meno capelli, più pancia, le borse sotto gli occhi. Mi sono sentita pure in colpa; il confronto tra noi due era così impari che mi è quasi sembrato di fargli un torto. Ma con l’ego che si ritrova figurati se si sente brutto. Sai, una volta, i primi tempi, eravamo lì a cazzeggiare su come sarebbe stato nostro figlio, da chi avrebbe dovuto prendere gli occhi, il naso… Quel genere di discorsi che si fanno, hai presente? A sentire lui nostro figlio da me avrebbe dovuto prendere solo i capelli. Ti rendi conto? I capelli… e solo perché lui aveva già cominciato a perderli. Comunque, ci salutiamo e la prima cosa che mi dice è: messo su qualche chiletto? Ho fatto finta di niente. Gli propongo di andare al Pitta così, mi sono detta, se anche stavolta scopriamo che non abbiamo nulla da raccontarci, c’è la possibilità di incontrare qualche conoscente che si intrometta nei nostri silenzi. I tavoli erano tutti occupati. Gradinate? Chiedo. Non sei grandicella per bere sulle gradinate? Quanto rompi, gli dico, per stasera fai finta di essere giovane pure tu. E mi avvio. Quando siamo davanti alla chiesa lui tira fuori il Manifesto dalla tracolla e l’appoggia sul gradino più alto. Li ho appena lavati, mi dice, passando una mano sui pantaloni. Quando capisco che non mi avrebbe offerto una pagina di giornale mi metto a sedere anche io. Allora, come va? Bene, tu? Tutto bene. Fantastico. Fantastico. Ti assicuro che è una brutta sensazione non sapere cosa chiedere alla persona con cui hai fatto l’amore per quattro anni. Come va il lavoro? Stai ancora con come si chiama? Dove vai in vacanza? Gli chiedo alla fine. Abbiamo deciso di fare un viaggio on the road. Abbiamo? Si è rifidanzato e senti qua dove vanno: facciamo il percorso dei migranti al contrario, dall’est Europa all’Italia. Cioè? Montenegro. Ora dimmi: quante persone conosci che sono state in vacanza in Montenegro e quante hanno tirato fuori la cazzata della rotta dei migranti? Bello, dico, e che c’entrano i migranti? Cice, davvero non capisci? No, e non mi risultano esodi da quelle zone. In questo momento storico, attacca lui, è giusto immedesimarsi con chi ha abbandonato la propria casa, ieri o oggi, coltivare quell’empatia che è stata stritolata dalla spettacolarizzazione della sofferenza. Insomma, gli serve la giustificazione morale per andare in vacanza. Tira il sermone così a lungo che mi distraggo a osservare la ricrescita dei peli sulle gambe. Deve rendersene conto perché a un certo punto mi dà un pizzico sul braccio e mi dice, non è che sei gelosa perché non siamo arrivati in Montenegro nel 2012? Stavo per versargli lo spritz sui pantaloni. Sai perché non siamo arrivati in Montenegro quell’estate? Perché il cretino aveva deciso di riconvertire il viaggio in un tour sulla Prima guerra mondiale dopo che, mentre eravamo a cena a Trieste, io non avevo saputo rispondere a una domanda su non so quale battaglia combattuta da quelle parti. Ce la voglio vedere la poverina in Montenegro. Quando mi tornano in mente queste cose mi prenderei a schiaffi per non averlo mollato io. Non ho il coraggio di chiedere altro. E tu che fai? Mi chiede lui. Nulla, gli dico, quest’estate lavoro. Pure ad agosto? Sì, pure ad agosto. Ma l’università non è chiusa? Che te lo dico a fare? È andato a mettere il dito nella piaga. Sì, ma tanto non mi hanno rinnovato l’assegno di ricerca già da tre mesi, quindi faccio altro. E la tua prof non ha fatto nulla? Non ti sarai mica fatta mandare a casa senza neppure una promessa? E giù una raffica di domande. Vuole sapere cosa sto facendo adesso. La cartomante, dico tutto d’un fiato. Dai, scema, dimmi di che ti occupi. Di che mi occupo, faccio i tarocchi alla gente, al telefono. Ma sei seria? Mi chiede lui. Sì, sono seria, gli dico io. Sei impazzita! Tu in questi mesi devi studiare e pubblicare più di prima, sennò col cazzo che ci rientri all’università. Devi farti vedere, andare ai seminari, ai convegni. Lo so, gli dico. Vorrei sembrare sicura di me ma sotto il suo sguardo mi sento una fallita. Non intendo mica farlo per tutta la vita, ma dovrò pure pagare l’affitto. Lui sta zitto e mi guarda. Io approfitto di quel silenzio per inserire una battuta del tipo, guarda che si sentono un sacco di storie assurde, magari alla fine le raccolgo e ne viene fuori qualcosa. Ma niente lui sta lì a guardarmi come se fossi una poveraccia. Vabbè, gli dico, cambiamo argomento. Lui scuote la testa: io te l’ho sempre detto che non ti stavi giocando bene le tue carte in dipartimento. Non mi piace che ti butti via così. E mica deve piacere a te gli vorrei rispondere, ma non lo faccio. Come stanno Lorenzo e Giulia? Gli chiedo per cambiare discorso. Si sono lasciati. Ah, ma pensa. E come mai? È stata Giulia, si è innamorata di un altro. Butto là una frase fatta, del genere all’amore non si comanda, ma lui non è d’accordo, dice che mica ti innamori così, in un secondo e che se non vuoi mandare tutto a monte, se hai un minimo di senso di responsabilità nei confronti della coppia, neppure inizi a coinvolgerti con un’altra persona. Se la metti così, gli dico, saremmo tutti sposati con il fidanzatino delle medie. Comunque, sembra che tradisse Lore già da un po’. Mi dispiace, dico. È stato un po’ fesso, risponde. Se l’è fatta fare sotto il naso. Succede così quando ti fidi di una persona, dico io. Io me ne sarei accorto. A questo punto non so cosa mi prende, ma senza che me ne renda conto dico: ti ricordi quando sono stata a Parigi per la tesi? E te lo ricordi quel mio coinquilino, quello che non sopportavi perché secondo te ascoltava musica di merda? Ci sono andata a letto. Succhio l’ultimo sorso di spritz dalla cannuccia. Mi deludi, dice. Pensavo di averlo già fatto, rispondo, poi guardo l’ora, scopro con sollievo che si sono fatte le otto e gli dico che ho appuntamento per cena. Mentre camminavo verso casa tua sono scoppiata a piangere. Io, col tipo di Parigi, non ci ho mai scopato.

Carla Fronteddu

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