Tuffi liberi

Il cane

Non lo vedi che non mangia?
Cosa?
Il cane, non mangia, ha qualcosa che non va.
Magari non ha fame.
Magari non avremmo dovuto lasciarlo da Pasquale per così tanto tempo.
Ti preoccupi troppo. Quando avrà fame mangerà.
Toby resta a leccarsi le zampe sdraiato nella cuccia blu in un angolo del retrocucina. È un bel cane. Un pastore tedesco un po’ più scuro del dovuto e con il pelo liscio e folto.
Mia madre si avvicina alla ciotola gialla in cui ha lasciato dei pezzetti di pane inzuppato nell’acqua e condito con gli avanzi del nostro pranzo. Mio padre va a cercare la rinazina spray per l’allergia.
L’avevo detto che tenere un cane in casa non sarebbe stata una buona idea, borbotta.
Mamma si avvicina alla cuccia di Toby, supera la serranda del balcone, sollevata per metà, si piega in due.
Osservo la scena dalla sedia blu della cucina. Nel retro se ne sta Toby, incurante di noi e delle nostre attenzioni. Mi avvicino e cerco di accarezzarlo. Proprio in quel momento mia madre armeggia con la ciotola, intenta a cambiare il cibo. La mia mano sfiora il pelo liscio di Toby ma lui non ci fa caso. Quando si accorge di mamma con le mani nella ciotola comincia a ringhiare. Non l’avevo mai sentito ringhiare prima, continuo ad accarezzarlo e cerco di voltargli il muso verso di me. Mamma solleva la ciotola per portarla via e sostituirne il contenuto e io ho tra le dita il muso bagnato di Toby che preso dalla rabbia abbaia, da lupo, e mi azzanna. Il sangue stilla. Me ne accorgo dopo. Rallentano le mani di mia madre, si mischiano ai denti di Toby, il muro si assottiglia. L’odore del pelo e quello del bario si sciolgono, resta uno strato di sangue, i segni dei denti nell’incavo tra pollice e indice.
Il rumore della ciotola che sbatte sul lastricato del balcone, il pane impregnato di sugo sul pavimento. La fuga di Toby verso il balcone con la coda tra le gambe, la tosse di papà che si avvicina. Tutto questo è chiaro, distinto, incredibilmente lento. Il resto si confonde: la stanza stessa non ha la compattezza di una stanza. È simile a un’onda ma non ha la forma dell’acqua.
Il soffitto con il lampadario a magnolia, il capo poggiato per un verso a terra e per l’altro alle mani di mia madre. Apro e chiudo gli occhi. Mamma asciuga il sangue con una pezza bagnata. Brucia.
Il cane se ne deve andare, dice papà.
Toby arriva in bagno con le orecchie tirate indietro come un topo e la coda tra le gambe. Papà lo vede e lo caccia via.
Sparisci, cagnaccio! Dice con voce arrochita.
Toby guaisce e si rimette nella cuccia. Perfino mamma ha smesso di coccolarlo e di portargli il pane. Ora non mi ci avvicino più.
La notte non riesco a dormire, punto gli occhi sulla striscia di luce che va dalla porta all’infisso. L’ombra del cane mi viene incontro, ringhia. Resto tra le coperte. Il battito cardiaco accelera, non sento altro. A un tratto la porta cigola, nel buio le orecchie di Toby. Mi metto a tremare.
Vattene, va’ via, lasciami in pace!
Lui resta.
Dovrei allungare il braccio per accendere la luce. E invece nulla. Non mi muovo.
Lui lì, sull’uscio.
Respiro.
Non succede niente. Ma potrebbe. E dormono tutti.
Il cane non si sposta, non ringhia, non abbaia, non fa che guardarmi con occhi che scintillano.
Allungo il braccio. Non trovo l’interruttore. Sento la tachicardia aumentare.
Con la luce gli occhi di Toby smettono di baluginare. Sono gli occhi del mio cane, quelli che aveva prima di bucarmi il dorso della mano.
Non ti arrabbiare, ti prego, non ti arrabbiare, dico.
È sempre più vicino. Gli occhi larghi a mandorla, a volte sembrano piangere.
È accanto a me. Sento umidità sulla gamba destra, sulle dita della mano fasciata. Avvicino l’altra mano alla sua testa e gli liscio il pelo con piccole carezze. Fuori dalla finestra il lucore dell’alba rende i palazzi viola, li fa sembrare di cartone. Io e Toby ci addormentiamo vicini, io tra le coperte e lui ai piedi del letto.
Quando mi sveglio Toby non c’è. Devo aver dormito a lungo. Dall’altra stanza arriva l’odore del sugo. Vado in cucina.
Mia madre gira il sugo, mio padre legge le notizie sul giornale, non tossisce. Mamma ha i lineamenti più duri, gli occhi guardano in basso, quando entro sorride senza guardarmi.
Corro nello stanzino della cuccia.
Dove l’avete portato?
Da Pasquale, dice mamma, di sicuro starà meglio lì.
Sto zitta.
Come, non sei contenta? Niente più morsi, dice papà.
Entro in camera, m’infilo la maglietta al rovescio, i calzini spaiati. Esco di casa. Papà si mette a urlare e mamma mi segue giù per il giardino. Raggiungo la villa di Pasquale alla fine della strada. Citofono ma non c’è nessuno. L’erba non è potata, sui muri crepe, edera cresciuta senza controllo, finestre serrate. Citofono e citofono e citofono ma tutto sembra morto. Guardo in alto e una grande nuvola sembra fissarmi. Poi scompare.

Ilaria Palomba

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