Prima avevo inviato il papà, poi la mamma, lo zio e la nonna ed erano stati fedeli, avevano preso il FabyTrans fino in Italia e spedito pacchi e cartoline ma nessuno di loro aveva mai azzeccato il modello giusto. Io non chiedevo le Bratz con gli occhi grandi come due mosche morte e colorati come i fari sugli scogli nelle notti di tempesta, e neanche le Barbie qualsiasi attaccate a una bici che si poteva far muovere in cerchio spostando il pulsante da off su on e una volta deperite le batterie bisognava aspettare che il papà o la mamma o lo zio o la nonna tornassero dall’estero e con mani adulte infilzassero un giravite dentro il tappo sul fondo.
Loro trovavano una perdita di tempo tornare dall’estero per cambiarmi le batterie e così chiedevo all’angioletto del buon Dio e all’Io credo la sera contro il margine del letto se potevano dall’Italia o la Germania o da Atene o dall’Olanda inviarmi le Barbie con i capelli voluminosi in seta, le teste degli omeri avvolgibili e le rotule delle ginocchia piegabili e capaci di volteggiare a trecentosessanta gradi sul pezzo di cartone con un buco dentro cui si infilava una cannuccia e che il sabato sera faceva da palcoscenico lap dance.
Le Barbie che si compravano in patria erano così vuote che se le afferravi dalle anche si appiattivano e bisognava bucherellare la plastica e soffiarci dentro per farle tornare formose e sode. Io invece volevo quelle con la plastica abbronzata e non pallida e triste, quelle che al tocco erano calde come la pelle che gli uomini avrebbero sognato di baciarmi dietro il collo da grande, anche se qui la pelle d’inverno è fredda e smorta da farmi sembrare malata.
Così in Italia a prendermi le Barbie con i capelli quasi veri ci ero andata io e alcuni dicevano che insieme a me era venuta su in Europa come bollore di caffè sulla moka anche la seconda generazione e gli attacchi terroristici di Berlino e Francia e il filo spinato tra Spagna e Marocco. Alle mie amiche rimaste in patria che vivevano dentro villaggi con tetti di paglia e tendevano la mano sotto il muso del cavallo e chiedevano “se ti do una mela, tu mi riporti la mamma dall’Italia?”, a loro avevo promesso di tornare con un sacco pieno di Barbie, come quello rosso che Babbo Natale aveva sempre in tivù, anche se all’asilo il sacco che il bidello trascinava era nero come quello che lanciavamo al mattino ai signori arancioni appesi ai lati del camion della spazzatura, ed era anche un po’ moscio, mai che ci fosse dato un Babbo tenace e non pigro.
Ma giusto il tempo di crescere e sentirmi dire dalla mamma “poveretta, anche lei finirà a fare le scale” che già avevo scordato le bambole e presa com’ero da scopa e mocio mi ero dimenticata di invitare le mie amiche in Italia e non hanno mai avuto le bambole promesse, così sono rimaste dall’altro lato e portano le mani sempre infiliate nelle tasche dei cappotti come quando si va d’inverno per la strade con le spalle ingobbite di chi ha freddo e bisogno di aiuti sociali e con i volti abbattuti di una nazione che è stata mollata dal papà e la mamma e lo zio e la nonna e questi hanno promesso bambole, cioccolata, decappottabili e un futuro radioso ma poi si sono dimenticati.
Un giorno in bilico in cima alle scale al lavoro sta un immigrato brasiliano che non conta molto ma un tempo aveva le braccia grosse di bicipiti che veniva voglia di leccarle, stava in Brasile e di sicuro è venuto via tirato dal guinzaglio dei desideri che quando era giovane deve avergli promesso le macchinine in plastica radiotelecomandabili con i portabagagli e gli sportelli che si aprono e il volante che si gira.
Gli chiedo se ha pulito bene e risponde sì e quando scorro il dito sulla porta e tiro via il nero sul polpastrello dice sputacchiando che non è colpa sua e perché la gente deve sempre andare a rimescolargli i torti.
“Hoje cara non me devi annoiare” dice, ripensa a quando era giovane con le spalle così grosse che la camicia bianca slacciata sul davanti gli si incuneava nei muscoli sulla schiena.
“Le donne ti adorano, ti adorano” gli diceva il proprietario dello strip club in cui lavorava, “il problema è che tu non parli con le donne”.
“Che bisogno c’è poi di parlare alle donne se ci sono tanti modi più semplici di farle contente” e dopo sfogata una bottiglia lungo l’esofago aveva cercato gli occhi dell’amico, anche lui camicia aperta sui pettorali abbronzati, alla resa dei conti quando quella sera si era lasciato dietro solo rossetti e tacchi spaiati e odore di libido e bottiglie rovesciate aveva vinto lui, di donne che tra le sue braccia si erano sciolte senza resistenza ed erano svenute e l’avevano rincorso per chiederne ancora ne aveva baciate di più lui.
Ora spazza le scale svogliato con il bastone alto per le ragnatele che gli supera la testa, di notte con carbone ardente ai piedi su una sedia in superstrada si prostituisce e se non almeno l’anima i piedi stanno al caldo e le mani ben foderate sono protette dentro le tasche, dice che non ci va granché, è un po’ come in biblioteca che bisogna piegarsi perché la lettera giusta è sempre agli scaffali più in basso. Dice “hoje não, demani si, hoje ho saudade, hoje sono costipato. È una semana che non cago”.
Gli chiedo cosa mangia e lui dice riso, gli chiedo chi gli ha detto di mangiare riso e lui risponde “ma niente, italiani mangiano riso”. Gli faccio presente che gli italiani si divertono se lui non caga mai più e che deve mangiare kiwi e caffè.
“Kiwi e caffè, hoje não, demani sì.”
Ho voglia salata come acqua di mare o grasso di pancetta di chiedergli quello che sei venuto a fare in questo paese lontano dalla tua saudade, forse le macchinine con il baule apribile e radiotelecomandabili, le hai mai più comprate?
Vorrei dirgli che io le bambole con i capelli quasi veri non le ho mai avute e le ho presto dimenticate. Insieme, forse, un giorno, con la sua camicia bianca e i suoi pettorali che scoppiano e le sue sopracciglia nere intense e la mano che si passa sulla fronte in su fino ai capelli lunghi prima di legarli nel codino, insomma un giorno io dalla Romania e lui dal Brasile forse potremmo entrare al Toys a comprare una macchinina e una bambola, e poi tante macchinine e tante bambole da riempire sacchi interi da inviare alle patrie superstiti oltre oceano, un giorno che io e lui saremo straricchi e non ci sarà più bisogno di trascinare i nostri corpi che navigano verso la vecchiaia in Italia con scope e stracci in mano. Un giorno glielo chiedo, andiamo e compriamo. Hoje não, demani sì.
Andreea Simionel
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