Di Pietro dirò giusto due cose. Per cominciare era superdotato, un’autentica serpe di montagna. Secondo, era il migliore di noi quattro. Ma questo lo capii più avanti.
A undici anni mi ero fatto un gruppo che comprendeva tre ragazzi del mio paese, ossia Pietro, Danilo il Testa e Marco, detto Marcolino. Danilo era sotto ogni aspetto il nostro leader. Alto per la sua età, con una voce da gallo strozzato e due mani enormi. Aveva una sua passione per i riti satanici e si era messo in testa che nel nostro paese ci vivessero delle streghe. Prendeva tutte le decisioni, perciò lo chiamavamo il Testa.
Marcolino era piccolo e basta. Piccolo di statura, piccolo rispetto a noi – aveva dieci anni – e portava un paio di occhiali troppo piccoli per la sua faccia. Pietro, come dicevo prima, era superdotato. Chiunque avrebbe sborsato per un coso come il suo, eppure lui ci soffriva. Credo che fosse strano anche prima che io lo conoscessi, ma quell’inverno, quando rischiò di morire per colpa nostra, lo era più che mai. Parlava a sproposito, sempre agitato, oppure si chiudeva in un buio silenzio. Sapevo che suo padre era morto annegato, ma lui non ne parlava mai. Mi disse soltanto che un giorno, circa un anno dopo che era successo, aveva scoperto i primi peli sull’inguine e si era messo a piangere.
Avrebbe fatto qualsiasi cosa per sentirsi uno di noi.
Un pomeriggio di gennaio il Testa annunciò una caccia al mostro. In paese ci annoiavamo, lui scalpitava. Sembrava che niente potesse distrarlo come un’avventura rischiosa, così lo seguimmo attraverso i boschi.
Nel tragitto Pietro mi stava vicino, mi tirava per la maglietta e allungava il cellulare per mostrarmi delle foto pornografiche. Lo assecondai, perché ormai sapevo dove stavamo andando.
Fuori dal bosco, il lago apparve come una lastra di smalto sotto le montagne. Non c’era nessuno nei paraggi. Questo perché il lago d’inverno ghiacciava e i turisti giravano altrove.
Il Testa si fermò sulla sponda. “Passeggiamo, uomini.”
Mise un piede sul ghiaccio, poi l’altro.
Toccava seguirlo, a quell’età non c’era scelta. Perciò camminammo finché a un certo punto – eravamo quasi al centro del lago – Danilo si voltò con un dito sulle labbra. Restammo in silenzio. C’era un rumore. Un suono robusto, come quello di uno strappo.
“Il mostro marino” commentò Danilo indicando il ghiaccio. “Qui, sotto i nostri piedi.”
Poi alzò gli occhi e vide Pietro. Ci guardava dalla riva con le mani in tasca.
“Che ci fa qui?” gli chiese una volta a terra.
Lui abbassò la testa.
“Questo è un gruppo per uomini fatti” insisté Danilo. “O salti o sei fuori.”
Pietro evitava di guardarlo.
Marcolino si fece avanti. “Fallo per il tuo pisellone. Sennò tanto valeva avere la vagina.”
Danilo scoppiò a ridere e gli batté cinque. Ma tornò subito serio.
“Sto aspettando.”
La faccia di Pietro era bianca come un annegato.
“Colpa tua” disse il Testa alla fine. “Cancellate il suo numero di telefono.”
Io e Marcolino ci scambiammo un’occhiata, ma fu lui il primo a estrarre il cellulare, io sentivo addosso lo sguardo di qualcosa più grande di me.
Quando mi decisi, non feci in tempo ad accendere lo schermo che Pietro cacciò un urlo, corse verso il lago e saltò.
Fu tutto veloce. Il ghiaccio si aprì e lo ingoiò intero. Ricordo quei secondi come anni – il nostro silenzio mentre lui era là sotto.
Scattai in avanti, raggiunsi il buco e lo allargai a pugni. Il Testa e Marcolino fecero lo stesso, martellavano il ghiaccio come animali. Tuffammo le braccia e per poco non finimmo di sotto. Le alghe si aggrappavano alle dita, il freddo le intorpidiva. Marcolino gridava aiuto. Mentre lo faceva, vidi Pietro su una barella, coperto da un lenzuolo. Sua madre che usciva di casa e correva verso i paramedici con le mani sulla bocca. La nostra infanzia finita.
Fu allora che il Testa riuscì chissà come ad afferrare la maglietta di Pietro. Lo tirammo fuori dall’acqua poco alla volta, lo trascinammo a riva.
Era mezzo svenuto, freddo e sul punto di crepare. Muoveva le labbra a pesce e aveva i capelli appiccicati alla fronte. Lo portammo in paese tenendolo per le gambe e le braccia, proprio come un morto.
Danilo continuava a ripetere che eravamo fottuti, che gli sbirri ci avrebbero sbattuti in galera. I miei pensieri erano gatti randagi. Marcolino aveva gli occhiali storti e non parlava.
Quando arrivammo davanti a casa sua, Pietro riuscì a mettersi in piedi ed entrò da solo. Il Testa propose di nasconderci da lui e sparimmo come ladri.
Più tardi, riuniti nella camera del Testa con i vestiti ad asciugare sui termosifoni, Marcolino ritrovò la voce: “Dovremmo chiamarlo”.
Presi il cellulare mentre Danilo si scaccolava con foga. Misi l’altoparlante e aspettai. La madre di Pietro impiegò tanto a rispondere.
“Lui è in punizione.” Aveva la voce arrochita.
“Però sta bene?”
Allontanò la cornetta, si soffiò il naso.
“La prossima volta che vi provoca, chiamatemi” disse. “Poteva succedere una disgrazia.”
Feci per protestare, ma lei m’interruppe.
“Sei leale” tagliò corto. “Ma non ha scuse. È in punizione per un mese.”
Appena riattaccai, il Testa mi fece l’occhiolino: “Sulla nostra lealtà non si discute”.
“Che culo” fece Marco.
Erano seduti sul letto in mutande, uno davanti all’altro. Danilo si grattò la testa. “Per voi che faccia ha un mostro marino?”
Marco si aggiustò gli occhiali sul naso e ci pensò su.
Soltanto allora mi accorsi del rivolo d’acqua sul parquet. Arrivava dai nostri vestiti e strisciava nella mia direzione.
Non ascoltai la risposta di Marcolino né la risata del Testa. Guardavo i miei piedi. Presto l’acqua sarebbe arrivata a toccarli e il suo gelo avrebbe risalito le gambe fino alla pancia, e da lì ancora più su, dritto nel cuore.
Emanuele Altissimo
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