Ora lei non parla più. Siamo seduti su un tronco d’albero spezzato che la mareggiata ha portato sulla spiaggia e non mi guarda.
Tira vento. Aria fredda sulle sue guance olivastre, mentre rintana il mento dentro il giubbotto. Dopo anni i suoi capelli sparsi nella notte mi fanno ancora un effetto strano. Le chiedo se vuole una sigaretta e fa un cenno di assenso. Nel farlo mi trapassa con lo sguardo ma dura niente. Sfilo dal pacchetto una Winston e gliela offro. Le accendo coprendo con la mano la fiamma dall’aria.
Tornato a Genova mi aveva scritto dicendomi che dovevo vederlo. Io pensavo scherzasse, ma ora credo di capire. C’è un cimitero di barche davanti a noi. La spiaggia a Boccadasse è sommersa da assi aguzze e rotte, scafi di navi tagliate a metà, riverse nella sabbia umida e fangosa.
“Fa impressione” le dico.
Annuisce.
“Non eri in Italia quando è successo.”
Verso il molo vedo che anche il bar è messo male. Le vetrate dell’ingresso sono in frantumi e un albero è caduto sul tetto.
Dice: “Te lo immagini? È il vento che ha fatto questo”.
Mentre parla fissa il mare. C’è qualcosa che dovremmo dirci. Un’ombra vecchia. Vorrei chiederle che fa nella vita. Come sta. Se ha cambiato lavoro, se questa città dove siamo cresciuti e da cui sono scappato ha sempre le stesse manie. Se ora ha qualcuno che la ama come si deve. Se ha dimenticato. Ma non dico niente, non avrebbe importanza. Stiamo solo con il rimescolare delle onde che consuma i relitti e divora la spiaggia e noi.
Gianluca Ferrittu