Mi hanno detto che il bar non c’è più, c’è stata una videoteca per qualche anno e adesso il locale è sfitto. Mio padre mi ci portava il sabato pomeriggio, a piedi, mentre l’aria si faceva fresca e buia.
L’ingresso, quei tre scalini triangolari, erano un permesso speciale, un addio al mondo. La vita dentro era fatta di tintinnii e voci che sapevano di alcol e nuvole dense di sigari d’importazione.
Prima andavamo a giocare la schedina. Lui si metteva in disparte su un tavolino con un foglietto e una biro. Io mi incantavo a guardare il porta-bicchieri sospeso, una doppia fila lunga quanto il bancone. Dietro stava il figlio del padrone, mi strizzava sempre l’occhio quando mi vedeva. Asciugava i bicchieri con un tovagliolo bianco che poi nascondeva nella tasca del grembiule. Aveva mani veloci e misteriose come un prestigiatore. Mio padre gli chiedeva un campari col bianco. Lo beveva in silenzio in tre grandi sorsate.
Davanti al tavolo della cassa mi chiedeva se volessi qualcosa, indicando gli ovetti di cioccolata e le liquirizie che riempivano due cestini di midollino. Io facevo di no con la testa: l’unica cosa che volevo era sentire i ticchettii del registratore di cassa – alla cassa c’era la moglie del padrone, con capelli biondo cenere che sembravano sempre appena usciti da sotto al casco del parrucchiere – e sentire sul mio palmo i cerchi freddi delle monete di resto che mio padre mi regalava.
Una volta fuori, il tepore e il rumore svanivano, l’aria era più fredda e umida. Noi ci tenevamo per mano e tornavamo a casa.
Roberta Garavaglia