Nel chiarore africano del tramonto, tra spume che risucchiano e sputano giocattoli rugginosi di bambini invecchiati, come minuscoli vascelli di carta che vanno a fuoco in una goccia di saliva, due teste spuntano. Sembrano in contemplazione del mare aperto, e la troppa luce che invade i loro occhi li rende quasi del tutto ciechi. Sono profeti adolescenti, attenti a non predirsi un futuro troppo impegnativo. È questo il loro patto: non dar fuoco alla brevissima miccia che li separa dalla deflagrazione.
Hanno giocato tutto il pomeriggio sotto il dorso del mare limpido, succo di mela in soluzione salmastra, tra le ginocchia coriandoli d’alga, ellissi subacquee appena percettibili. Si toccano con dita traboccanti di linfa giovane e verdissima, acerbi. Un uomo li fissa dalla panchina sul molo. Sa bene che il tempo non è molto.
Immagina lunghi iridati pesci-zeppelin volare a un palmo dell’epidermide marina, sottile come la pelle dei vecchi, come la sua. Gli pende fluttuante dalle ossa in una cascata di carne. Senza espressione, continua a indovinare nei due ragazzi il sentimento inesistente dell’amore. Giocano in acqua nudi, ingannati.
La ragazza si chiama Aleida, ma questo l’uomo non lo può sapere. Quando il ragazzo urla il suo nome, lui è già oltre la piazza, diretto verso casa.
Un vecchio è seduto al tavolo della cucina. Ha sotto mano un foglio bianco. Ha dovuto soffiarci su tre volte per liberarlo dalla polvere. Con una matita comincia a tracciare delle linee. Ha la mano ferma. La mina è dura. In certi punti il foglio non regge la pressione, si strappa. Disegna una ragazza magra seduta sul cesso. Tra le dita sottili regge uno specchio, tondo, rosso. Ha le gambe aperte. Il vecchio ricorda che le donne aprono le gambe a quel modo quando devono pulirsi. La matita avanza. La ragazza si porta lo specchio tra le cosce, oltre la siepe vaporosa e bruna. La chiama “la mia fica marxista”. Il vecchio disegna una vignetta e ce lo scrive dentro. “Ehi, questa è la mia fica marxista!” Gli occhi dell’uomo si chiudono, la mascella si rilassa. La ragazza guarda nello specchio, cerca qualcosa. Lo trova e ammette che il ragazzo ha ragione. Dall’estremità bassa della vagina parte uno sbuffo di carne, come un piccolo labbro addizionale, che la collega all’ano. Il vecchio riapre gli occhi. Pensa ai due ragazzi in acqua, quel pomeriggio. Lei aveva i capelli in fiamme e sembrava non dar peso a nulla. Quando rideva lo faceva anche con le mani, raccogliendole attorno alla bocca come coppe, o alzando schizzi d’acqua verso di lui. Il vecchio si appoggia allo schienale, dopo aver scritto sotto il disegno un nome e una data. Aleida, 12 maggio 2018.
I due ragazzi sono tornati a casa. Hanno scopato a lungo, chiamandosi nei modi più contraddittori che l’amore consente. Ora possono dormire e rientrare ognuno nel confortante guscio del proprio nome. Lui chiude gli occhi e immagina un’enorme conchiglia nel bel mezzo del deserto. La luna la illumina come un faro. Ha la scorza di specchio. Un uomo si avvicina, dalla sua ombra pende un martello.
Lei apre gli occhi e osserva lui che sogna. Sono viso contro viso. L’uomo sta di fronte alla conchiglia e la scruta, è piccolissimo e nero, lei gigantesca e bianca.
Aleida lo bacia mentre sogna, svegliandolo. Si guardano per qualche istante nel buio, poi lei si volta e lui la abbraccia. Non sa dire se l’uomo troverà mai il punto esatto in cui battere il martello. Eppure, dalla sua prospettiva onnisciente e aerea di sognatore, è sicuro d’aver visto una porzione di guscio così sottile da sembrare un’ostia.
Lei chiude gli occhi tra lui e il muro. Lui si sporge oltre il collo e la bacia. Domani ripartiranno.
Il vecchio chiude la porta di casa a chiave. Ha tolto il crocefisso e appeso al suo posto il disegno di Aleida sul cesso. La sagoma della croce sul muro verdino si intravede appena. Lei cerca ancora quel piccolo svolazzo oltre le pieghe ben disegnate del suo sesso. Il vecchio spegne le luci e si mette a letto, cercando nel buio il viso di Aleida, fermo a cinquant’anni prima.
Davide Raimondi
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