Tuffi liberi

Cerchi vuoti

Rivoli rosa mi arrivano fino al seno, mi fanno il solletico. Ho il braccio destro sopra la testa, con il phon punto una ciocca di capelli mentre la tiro con la spazzola, ripeto il gesto, ancora, ancora.
Mia madre entra nel bagno, porto il braccio dietro la schiena. Prende qualcosa dal cassetto, si ferma e mi guarda i fianchi.
“E vèstiti!”
Esce. Chiudo la porta che ha lasciato spalancata. La sento urlare in cucina. Mi guardo nuda nello specchio, alzo il braccio destro, sull’avambraccio la scritta si legge storta, prendo batuffoli di cotone e me la medico: sanguino poco, i batuffoli si colorano di un rosa chiaro, me la tampono velocemente, non posso ripassare le lettere oggi.
Mi infilo le mutande e il reggiseno. Sculetto fino a camera mia, ondeggio nei fianchi. Una volta un insegnante di teatro mi ha detto che non c’è niente di male nel fare così, che significa che una è rilassata, che usa bene il bacino. Dalla cucina arriva la voce di mio padre, sfatta, uno strillo di mia madre, un rumore forte come quando si spacca la legna e poi il silenzio. Devo sbrigarmi. Apro l’armadio. Metto la maglietta nera, con le maniche lunghe.
Prima di uscire entro in cucina. Si fermano, entrambi. Lei vicino la finestra, guarda fuori, ha le guance sporche di nero, lui sta in piedi vicino al tavolo, guarda la bottiglia, si siede lentamente.
Io vado, dico.

Siamo seduti ai banchi, Eva mi passa un fogliettino piegato a quattro, lo apro, lo leggo, ci guardiamo, sbadigliamo. L’istruttrice sta spiegando un incrocio sulla lavagna, sta indicando l’asterisco. L’asterisco ha sempre precedenza, nella vita reale bisogna capire chi è l’asterisco e chi il cerchio vuoto. I cerchi vuoti aspettano, sempre, i cerchi vuoti si muovono per ultimi. La voce della donna saltella, usa toni acuti per attirare l’attenzione, potrebbe essere mia madre.
Mi ha appena chiamato. Raggiungo l’istruttrice, mi dà in mano il gesso, dovrei indicare chi entrerà per primo nell’incrocio. Non faccio nulla, lei seccata chiede alla classe, mi raggiunge Eleonora, le passo il gesso.
Quando torno al banco Eva si scompiscia nella mano. Guarda l’orologio e con le dita forma un cinque deciso, leggo il labiale: birretta? Scuoto la testa, mimo una guida molto spericolata. Lei ride.

Mi aspetta fuori, è lo stesso dell’altra volta. È rotondo, i bottoni della camicia sono tiratissimi, ha le chiazze scure sotto le ascelle.
Mi sorride, dice salta su e scompare nel lato del passeggero.
Prima di tutto mi metto la cintura. Brava, tuona la voce di lui. Partiamo. La tengo bene la macchina, mi sembra come se la conoscessi da tempo, come se il mio corpo sapesse perfettamente quando spingere con il piede destro e quando con il sinistro, le mie mani si muovono autonomamente, con leggerezza si spostano dal volante al cambio, dal cambio alle frecce, sono un tutt’uno con la macchina.
Mi naviga fuori città, forse ha ragione, forse io e il traffico ancora no.
“Ti diverti? Ti vedo rilassata.”
“Sono rilassata.”
“Bene.”
Mi prende la mano e me la mette sul cambio, stai andando bene, dice. Lo so. Il sole si sta facendo più basso, la sua luce c’è ancora, solo più satura. La strada in mezzo ai campi è tutta nostra, faccio le curve con disinvoltura, sono solo dei piccoli ondeggiamenti di direzione. La strada si innalza, per salire sul cavalcavia metto la seconda, sono troppo brusca e la macchina raspa. Lui sorride, freno un po’ in discesa, rimetto la terza e la quarta.
“Non ti preoccupare.”
Metto la quinta. La macchina ronza diversamente ora, andiamo più veloci, sento il piede che spinge contro l’acceleratore, rimetto la mano sul volante.
“Sei brava.”
Mi prende la mano. La appoggia piano. Sento il tessuto dei suoi pantaloni, un cotone leggero liscio, provo ad alzare la mano, lui me la spinge giù.
“Sei brava.”
Non capisco. Ho le gambe divaricate, la destra in tensione, la sinistra di fianco alla frizione, pronta a scattare, in mezzo ho la sua mano. Lo sbircio: guarda avanti, ha un’espressione sicura. La luce si fa più arancione.
“Guarda la strada.”
La strada scorre, i campi si scuriscono pian piano, la luce ancora c’è ma io non la vedo, non vedo niente, non respiro, sono un pezzo di legno.
Le sue dita cominciano a muoversi, fa cerchi in mezzo alle mie gambe.
“Dai, sei brava.”
Sposto il bacino indietro, provo a svincolarmi dalle sue dita, ma mi seguono, mi seguono.
Freno un po’, il motore gracchia.
Devo cambiare marcia.
Non sono sicura che io l’abbia detto veramente, ci riprovo.
“Devo cambiare marcia.”
Tiro la mano con forza, me la trattiene ancora per un po’ e poi la lascia andare. La sua rimane là dov’è. I cerchi sono quasi isterici.
“Se vuoi possiamo fermarci.”
La sua voce gracchia come la macchina.
Spingo sull’acceleratore.
“Come preferisci.”
Rimetto la quarta, lui aspetta, la quinta, mi prende la mano, me la porta via. Non ho più mano destra, non ho più bacino e gambe, sono solo il tronco e la mano sinistra sul volante, fisso la strada, è dritta, è deserta. In mezzo alle gambe ho uno che mi disegna cerchi vuoti.

Sposto leggermente il volante verso sinistra. Lui è preso dalle parti di me che non esistono, non nota la linea tratteggiata scorrere tra di noi. Spingo ancora, ora siamo completamente contromano. Se ne accorge, dice che mi piace giocare, dice giochiamo cucciola. Sorride, toglie la mano dal mezzo delle mie gambe, faccio un respiro, l’unico.
Lo sento trafficare con la cintura, provo a svincolare la mano destra, la tiene nella sua, la tiene forte, in aria, lo sento aprire la lampo, lo sento ansimare, ci siamo quasi cucciola, ritorna tra le mie gambe, è vorace, cerca di abbassare la mia mano destra, ora sono io che la tengo in aria, ma è più forte, la lascio cadere giù.
“Ti piace, lo sapevo, si vede.”
Fisso la strada, siamo sempre contromano, la luce se n’è andata, l’imbrunire ha fatto divenire i campi degli spazi bui. La macchina corre avanti, la linea bianca si è fatta grigia, è sempre più scura.
Vedo due punti di luce, prima piccoli piccoli, poi un pochino più grandi, li vede anche lui. Si ferma, la mia mano nella sua mano attorno al suo cazzo, la sua mano che cerca di entrarmi dentro a prescindere da jeans e mutande.
“Accendi i fari e torna nella nostra corsia.”
La mia mano sul volante non si muove, la guardo, come la guarda lui, mi sento emettere un suono, un suono strano.
I punti di luce sono più grandi, si fanno più vicini, sono larghi, distanti tra di loro, sono fari, penso, sarà un autotreno, penso, e non so perché ma la cosa non mi preoccupa. Anzi credo che sto ridendo.
“Ma che fai? Torna, dai torna cazzo.”
Accelero.
“Ma cazzo vuoi farci ammazzare?”
Mi sento deglutire e poi scandire lentamente.
“Se non mi levi le mani di dosso, non torno.”
Il rumore del motore mi pare assordante, ma lui ha sentito.
Toglie la mano, il bacino mi fa male, è leggero ora ma fa male, mi ridà la mia mano, la butta via con stizza e io la raccolgo. La metto sul volante.
Le mani vibrano insieme alla macchina. Con la sinistra tiro su la manica fino al gomito. L’autotreno è a poca distanza. La macchina ulula.
Lui guarda il mio braccio, poi guarda me, sento che ora mi vede, è un attimo ma mi vede, giro un po’ l’avambraccio per leggerla anche io, la scritta.
Mi dispiace di non averla ripassata oggi.

Jana Karšaiová

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