Mi sveglio. Un bambino che strilla. Mi alzo dal letto. Ho addosso solo i pantaloncini del pigiama e l’aria mi arriva fresca contro il petto mentre attraverso il corridoio buio.
Lei ha due anni. Non sa cosa siano i sogni. Quando si risveglia da sola nella stanza buia, l’unica cosa che riesce a fare è gridare, e tutte le volte io la stringo a me finché non le passa la paura. Ogni tanto, mentre grida, si agita e mi colpisce coi pugnetti, e allora la lascio a contorcersi sul pavimento, da dove prova addirittura a gattonare sotto al letto per scappare a ciò che ha appena visto. Un minuto è un lasso di tempo enorme per un bambino rinchiuso in un sogno. Io stesso, impotente, la guardo atterrito.
Le grida diventano più acute, più urgenti. Papà! Papà!
Mi muovo in automatico, perfino nel sonno profondo. Mia moglie, se non dorme di notte, di giorno soffre di terribili emicranie, quindi ho imparato che i doveri notturni toccano a me. Ma non è solo questo. Mi piace confortare la bambina. Mi piace correre a salvarla, e sentire quel corpo caldo aggrapparsi a me. Tra tante cose discutibili, questa, ne sono sicuro, ne ho una certezza animale, è quella per cui sono fatto. Una donna deve provarlo quando allatta, nutrendo un bambino del suo stesso sangue. Un uomo può sentire una cosa simile solo quando mette il suo corpo a protezione. Perfino in un appartamento in città col riscaldamento centralizzato e le porte chiuse a doppia mandata.
Nel corridoio in penombra sbatto il piede contro la base della cassettiera, ma non mi fermo.
Quando entro nella stanza della bambina, lei è solo un’ombra leggera, una foschia in preghiera sul letto, le braccia già protese verso di me si allacciano attorno al mio collo non appena la sollevo. La stringo e le sfrego la schiena, mentre la chiamo con i suoi nomignoli rassicuranti: la mia scimmietta, il mio tesoro, la mia piccoletta…
Le asciugo una guancia, fredda di lacrime umide, e la cullo in giro per la stanza. Il pianto a poco a poco si ispessisce in lunghi respiri tremanti, il preludio del torpore salvifico. Non ci sono parole adatte a rassicurare dai terrori dell’immaginazione qualcuno così piccolo. L’unica cosa da fare è tenerli vicini.
Per qualche minuto sono altrettanto potente e buono di Dio.
Sto seduto sul letto quando i suoi respiri si allungano nei respiri del sonno, tra gli occasionali fremiti che la fanno sussultare. Mentre il suo viso è schiacciato contro il mio petto nudo, le accarezzo la schiena calda. Tra poco la rimetterò nel suo letto per tornare al mio e, riconoscente, mi infilerò di nuovo tra le lenzuola ancora calde.
Poi mi ricordo del piede. Col braccio libero, il destro, lo raggiungo e con la punta del pollice tocco il terzo dito. L’unghia è spezzata e sul dito mi rimane un liquido appiccicoso. L’oscurità non mi permette di registrare a pieno il dolore. Non sembra nemmeno troppo reale, il sangue che al buio fa una pozza sul pavimento, mentre il sogno pauroso della mia piccola si infrange e si dissolve nel nulla.
Sono quasi pronto a stenderla di nuovo quando sento un rumore dalla camera da letto. Si accende una luce all’altro capo del corridoio. La porta spalancata sul corridoio ora è un rettangolo illuminato, e le forme e le ombre della camera di mia figlia prendono una tonalità più soffusa, e adesso posso intravedere le tende e i giocattoli e quel piccolo cerchio nero che si allarga attorno al piede macchiando il parquet. Sento i passi di mia moglie muoversi per il corridoio.
Accende l’interruttore della luce. È immobile sulla porta. Io sono accecato, non riesco a vedere per bene la sua faccia. I suoi occhi sono cambiati. Non guardano nei miei. I suoi tratti si sono fatti più grossolani. Anche quando i miei occhi si abituano, il suo sguardo rimane indistinto. Mi ricordo che non vivo più con mia moglie.
Poi mi rendo conto che questa non è la camera di mia figlia. La disposizione è la stessa, ma gli oggetti sono nuovi o riposizionati, come se fosse un appartamento identico nel mio palazzo, su un altro piano. Devo aver varcato la porta sbagliata a un certo punto, tra il sonno e la veglia. Realizzo che sono così stanco, così disorientato, che sono capace di fare terribili errori di giudizio. La mia sola consolazione è la bambina, al sicuro tra le mie braccia.
Adesso devo andarmene e trovare il mio appartamento. E sì, ora ricordo: nel mio appartamento non c’è la cassettiera nel corridoio contro cui ho sbattuto il piede. Guardo giù. Pare che mi sia fatto proprio male. Il sangue ai miei piedi ha formato un laghetto. Quando mi alzerò per camminare lascerò tracce del mio passaggio.
Me ne vado, allora, dico alzandomi, e mia figlia sentendo il movimento nel sonno, come se fossimo un solo corpo, istintivamente si aggrappa più forte al collo con le braccia.
La donna sta ancora bloccando la porta. Dice:
Non te ne vai di qui con mia figlia.
© Philip Ó Ceallaigh
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© traduzione di Stefano Friani