Tuffi liberi

La scintilla

Era una cosa priva di senso, ma le avevo chiesto di sposarmi. Sapevo che avrebbe detto di no. Mi ero convinto di amarla per il motivo sbagliato. Sembrava che accanto a lei io fossi meno me stesso.
Per immortalare quel momento lo annotai su un libro.

Roberto mi ha scritto che a giugno ci ritroviamo tutti per festeggiare i vent’anni del nostro diploma. Voleva sapere se avessi notizie di Silvia, nessuno era rimasto in contatto con lei. Nessuno l’aveva più vista.
Mi sono ricordato di quella sera a teatro, quando io e lei eravamo andati a vedere uno spettacolo di Gaber, uno degli ultimi, e ci eravamo tenuti per mano tutto il tempo mentre Gaber parlava e cantava, mentre faceva ridere e piangere. Eravamo usciti dal teatro pensando che il mondo fosse sull’orlo del baratro, ma che noi avremmo potuto salvarlo. Avevamo camminato. La luna si specchiava sulle acque del laghetto. Avevamo gli occhi lucidi di benzina, pronti a prender fuoco con una scintilla.
Credo che in qualche modo sapesse che intenzioni avevo. Non si mosse. Mi aspettavo che ridesse ma non accadde. Si lasciò prendere la mano e mentre la guardavo negli occhi e un pesce increspava la superficie perfetta dell’acqua la feci sedere su una panchina e le parlai, quasi cercando di convincerla che da soli saremmo stati oggetti e non persone.
Non ricordo le esatte parole con cui mi disse di no. Ci si immagina che una persona debba registrare ogni singola sillaba in un momento così importante, ma non fu così. Perché mentre parlavo, mentre il mio discorso si faceva concreto e si srotolava come un tappeto rosso davanti a lei, il suo viso iniziò a cambiare. Cercò di consolarmi, ma non volli. Credevo che non ce ne fosse bisogno.

La maggior parte di noi aveva mantenuto contatti minimi su facebook. Alla fine, del gruppo dei diplomati del ’97, ne mancavano tre. Due di loro erano andati a vivere all’estero. Silvia invece si era dissolta. Non aveva profili social e digitando Silvia Parish su Google saltavano fuori notizie che non potevamo in alcun modo collegare a lei. Mentre ci scambiavamo informazioni sulla nostra vita io cercai di immaginare quella di Silvia. Se avesse una famiglia e dei figli. Se fosse felice o se le cose non erano andate come immaginava. Se avesse avuto una vita appagante o come la mia.
La ragazza più bella della classe, come nei peggiori cliché, stava invecchiando malissimo e se ne rendeva conto. Roberto invece non era cambiato. Aveva sempre quei capelli fitti e ricci che gli facevano assomigliare la testa al dorso di una pecora. Io raccontai del mio lavoro, l’unica cosa che avevo da condividere con gli altri. Feci passare la mia solitudine come una tappa di un percorso accidentato fatto di conquiste e delusioni. In realtà non mi ero mai alzato da quella panchina.
La serata finì con la promessa di rimanere in contatto.

Il mese successivo Roberto mi chiamò. Pensai con terrore che volesse organizzare un’altra uscita, invece voleva darmi qualche notizia. Dispiaciuti per il fatto di non essere riusciti a contattare Silvia qualcuno aveva cercato con più insistenza. Lei e la sua famiglia erano partiti per la Germania qualche anno dopo il diploma. Si erano stabiliti lì, il padre aveva aperto una gelateria e ci erano andati ad abitare sopra. La madre dava una mano dietro al bancone. Anche Silvia aiutava quando non studiava all’università. Poi una notte era scoppiato un incendio.
Chiusi la telefonata ringraziando Roberto. Andai alla libreria, presi tra le mani un libro ingiallito. Avevo tenuto il segno con una piega. L’inchiostro era sbiadito e si leggeva appena. La grafia era chiara e aveva una certa freschezza che non sentivo mia.
“Il 12 aprile 1997 alle ore 22:53 ho chiesto a Silvia di sposarmi. Come pensavo mi ha detto di no. Ha detto che non dobbiamo bruciare le tappe, ma ha anche detto che un giorno io e lei ci troveremo entrambi nel punto esatto in cui dovremo essere e saremo felici. Spero che abbia ragione.”

Gianluigi Bodi

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