Tuffi liberi

Ferro

“Sono tornati gli assistenti sociali” aveva detto Ferro.
Al ritorno da scuola, facevamo sempre la strada insieme. Abitavamo nelle stesse caserme, come diceva lui, nella periferia di una periferia.
“Sono venuti a salutarmi, capito? Da domani non sono più affari loro.”
Ci eravamo allungati fino al confine della Valletta. La Valletta era la nostra zona del parco pubblico, dove si allargava un campo da basket senza canestri. Nostra e del gruppo. Ma era stata di Ferro, prima che di tutti noi.
Ferro conosceva gli angoli migliori del quartiere perché non tornava mai a casa. Diceva che sua madre, la Grassa, aveva un sudore malato che proprio non sopportava: si infilava dappertutto. Diceva che era buona solo per i farmaci che doveva prendere per dimagrire, come il Preludin.
“Non mi sembra vero, sai? Mi sono stati addosso per diciotto anni. Nemmeno al gabbio, cazzo.”
Boccheggiava nel freddo, non sembrava felice. Avevo pensato che mi dispiaceva. Per tutto. Per la Grassa, per suo padre, per il lasciapassare che non avevamo. Ero orgoglioso della festa che gli avevamo organizzato. Il suo diciottesimo sarebbe stato in Valletta, perché non c’erano i soldi, ma sarebbe stata una cosa grossa.

Avevo incontrato Ferro durante una lezione di matematica. Lui aveva spalancato la porta dell’aula con una pedata: esibiva un sorriso a metà tra un cane randagio e un incidente – l’incisivo spezzato, le discromie marroni da tetracicline. Eravamo diventati compagni di banco per sorteggio. Due settimane dopo lo avevano beccato a spacciare nei bagni ed era stato espulso. Ma noi eravamo rimasti compagni di banco.
“E allora, hai finito il libro che leggete a scuola?” mi aveva chiesto.
“Una bella porcata” avevo risposto.
“Ti piacciono solo le storie che finiscono bene.”
Si era girato a guardarmi – camminava sempre un passo avanti a me – e aveva scosso la testa, come per dire che ero scemo. Aveva ancora il taglio che gli avevo fatto una settimana prima, rappreso in una crosta sullo zigomo. Ci eravamo pestati un’altra volta per via di Cinzia e avevamo giurato che sarebbe stata l’ultima. Cinzia l’aveva mollato ancora, gli aveva detto che non riusciva nemmeno ad accarezzargli la faccia, con tutti quei brufoli. A me non era mai piaciuta. Nel gruppo sapevamo che si faceva uno in Giambella, ma nessuno si era mai azzardato a fiatare. Anche Ferro lo sapeva e prendeva il Preludin.
Alla vigilia del suo diciottesimo, Ferro aveva sputato nell’erba che affiancava il marciapiede. Intorno a noi le caserme si scioglievano nella nebbia.
Quello era stato il momento in cui non mi aveva detto addio e invece avrebbe dovuto. Allora io l’avrei salutato, non avrei provato a convincerlo del contrario. Ci saremmo divisi nella nostra Valletta. Qualche volta faccio finta. Faccio finta che sia successo proprio così.

La sera successiva ce ne stavamo alla Valletta, io, lui e il resto della banda. Urlavamo tra noi, le vene del collo gonfie dalla voglia di fare qualunque cosa pur di non risvegliarci dall’eccitazione che ci aveva preso. Ferro era libero, insieme a lui eravamo liberi tutti.
A un certo punto, al limite del campo, era passato uno di quinto anno che conoscevamo, con la sua ragazza.
L’inseguimento era iniziato subito. Tutti avevamo voglia di correre dietro a Ferro, quella sera. Giù per la Valletta, mentre il ragazzo si dava alla fuga. Nella nostra corsa avremmo voluto travolgere città e stati e pianeti, pieni di forza esplosiva alimentata da anni di cielo grigio e pubblicità in tv e temperini nascosti nelle mutande. Una terapia di gruppo. E dietro a Ferro, quella notte, stavamo inseguendo la nostra vita.
Si era ricacciato nel parco. Gli eravamo andati dietro, sudati e stravolti, lo avevamo raggiunto subito. Avevamo odiato il ragazzo, per essere stato così facile e di così scarsa sostanza.
Il ragazzo si era messo a supplicare mentre Ferro lo prendeva per i capelli e lo tirava su da dov’era inciampato. Un pugno, due, tre. Colpire, colpire, colpire! Ferro me lo aveva passato come una palla, l’aveva fatto rotolare per terra, nell’erba che si era piegata tutta, si era riempita di lividi e sfondamenti. La carne del ragazzo sotto alle nocche, i suoi denti duri che spaccavano la mia pelle.
“Ammazzalo!” un coro di urla animali.
Allora io e Ferro ci eravamo guardati negli occhi, e lui mi aveva confessato con uno sguardo lucido e cosciente che aveva proprio deciso di farla finita.
Mi aveva preso il ragazzo dalle mani, lo aveva preso e gli aveva calpestato la fronte con i suoi calci fino a quando non si era mosso più se non ai confini del suo corpo.
Ferro aveva continuato anche dopo, mentre la fidanzatina del ragazzo sveniva, e lui insisteva a uccidere quello che insieme al ragazzo stava nel suo giubbotto, dentro di lui e nelle sue vene.
Io lo sapevo, lo sapevo che Ferro mi avrebbe trascinato tanto giù da non poter tornare più indietro. Lo sapevo mentre scappavamo via con gli schizzi di sangue sulle gambe, mentre la Valletta crepava in un soffio, per sempre.

Andrea Zambrero

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