nelle altre piscine

A largo e più a largo

Mio padre non riusciva a scegliere una spiaggia. Erano allineate, una dopo l’altra, separate da strisce di cemento. Continuava a dire: “La prossima, la prossima”. Nella prima c’erano troppe donne in topless. Nella seconda c’erano ancora più donne in topless, nonché bustine di patatine, e bottiglie di plastica che fluttuavano dentro e fuori le onde. “La prossima”. Ci fermammo alla quinta spiaggia, dopo che mio padre si era rassegnato al fatto che le donne in topless, a Barcellona, erano inevitabili. Abbassò la testa come per schivare qualcosa e avanzò bellicoso verso la striscia di sabbia più vicina all’acqua. Era vuota tranne che per la spazzatura e due bimbi nudi, un maschio e una femmina. Pensai che dovevo essere più simile a mio padre di quanto pensassi, perché il pene piccolo e dondolante del bambino mi imbarazzava, e non riuscivo a smettere di guardarlo.
Mi imbarazzavano anche i miei vestiti, tutti di un rovente blu acqua. Dei pantaloni a zampa larghi e pieghettati, una maglia da surf in spandex a maniche lunghe che mi copriva i polsi, e il mio hijab anch’esso blu acqua, di cotone e stretto intorno al viso così che neanche un ciuffo di capelli potesse spuntare fuori. Quando mi ero vestita nell’hotel avevo pensato che il blu mi risaltava gli occhi, ma qui sentivo gli occhi di tutti incollati su di me.
Mi sedetti vicino agli occhiali di mio padre. Se li era tolti così poteva guardare la spiaggia senza vederla davvero. Si schizzò dell’acqua sulla testa, poi iniziò a fare wudu, a pulirsi il corpo per pregare. Mio padre amava fare wudu nella natura. Aveva quel qualcosa di speciale, una certa connessione con la terra di Dio. Si strofinò l’acqua tre volte sulla mano destra, tre volte sulla sinistra. Tre volte sul viso, poi si risciaquò la bocca con l’acqua salata e la sputò. Mio padre mi disse una volta che se non hai l’acqua puoi fare wudu con qualsiasi cosa, persino con l’aria, se proprio necessario. Nel deserto puoi fare wudu con la sabbia. Mi misi a scavare nella sabbia della spiaggia, strofinandomela tre volte sulla mano destra, tre volte sulla sinistra. Se fai wudu con la sabbia non devi farla frusciare tra i denti, come faresti con l’acqua. Basta portarla a toccarti le labbra. Io non feci né l’una né l’altra cosa, continuai solo a scavare e strofinarmi la sabbia sulle mani, che pian piano si racchiusero in un oro argentato. Più tardi seppi che la sabbia su quella spiaggia era intessuta di pirite. Ma allora sapevo solo che, a Barcellona, quando giravo le mani da un lato all’altro, brillavo. Nell’acqua aprii gli occhi al sale e guardai i fiocchi d’oro vorticarmi intorno. Mio padre mi aveva detto, prima, che il Mediterraneo era più salato del Golfo. Mi meravigliavo della mia assenza di peso e mi chiedevo perchè mio padre non fosse rimasto qui in Spagna, appena fuggito dalla Libia, mi domandavo perché avesse lasciato un luogo dove puoi nuotare a largo, sempre più a largo, senza mai affondare. Ma, ovviamente, sapevo perché.
Mio padre mi trascinò via dall’acqua quando due donne in topless, con seni piccoli e modesti, iniziarono a giocare a pallavolo vicino alla riva. Si mise gli occhiali in tasca e mi tenne la mano mentre attraversavamo la spiaggia, come se avesse paura di perdermi, come se fossi ancora una bambina, come se qualcosa qui potesse strapparmi da lui o ingoiarmi tutta. E naturalmente lo fece, meno di un anno dopo, quando mi ricordai il peso dei vestiti bagnati sul mio corpo, mentre sgocciolavo tornando indietro verso Las Ramblas. Non era che non volevo più essere musulmana, o che non ci fosse valore nella modestia. Ma le donne sulla spiaggia non erano modeste anche loro, nel loro modo, nella loro unione con la sabbia e il sole, e persino con la spazzatura nell’acqua? E io, io ero quella diversa. A casa, in Florida, avevo troppa paura per visitare una spiaggia, finché un giorno freddo di gennaio contemplai il Golfo da una striscia di sabbia isolata e decidetti che non era così che doveva essere, che l’acqua e la sabbia appartenevano al mio corpo, non a una fascia di stoffa blu acqua, e mi svestii fino alle mutande e mi feci strada nell’acqua e la sentii pulsarmi dentro fredda ed elettrica.

Ndt: quando ho tradotto questa scena in italiano, ho avuto paura. Ho avuto paura che la complessità del rapporto tra una donna, il suo corpo, la sua famiglia e la sua cultura diasporica fosse ridotto a un paradigma semplicistico e islamofobico, dove il velo opprime la donna e toglierlo la libera. Questo racconto dice molto più di questo. La scena finale è una gioiosa scena di liberazione, ma anche un momento di malinconia: gli occhi delle donne occidentali incollati su di lei hanno vinto, la bellezza dei rituali che svolgeva con il padre scivola via. Non derubiamolo della sua complessità.

Latifa Ayad

traduzione di Zad El Bacha

 

racconto originale su Pen America e The Masters Review

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