A diciannove anni mi ritrovai con la casa piena di fratelli e un solo genitore.
I fratelli erano due, soldato culo e soldato camicia, sei e dieci anni. Poi c’era mia sorella. Era nata un anno dopo di me e per capirci non avevamo bisogno di parlare. A cena sedevamo uno davanti all’altra, fingendo di ignorarci mentre mamma continuava a far cadere il sale.
Prima occhiata: “Stanotte non ha dormito”.
Sopracciglio alzato: “Ho sentito”.
Questo finché i soldati non andavano in sala a massacrarsi. Il salotto era la loro stanza temporanea dal trasloco. C’erano due divani che usavano come roccaforti da cui lanciarsi oggetti. Ma potevano anche diventare navi. Allora partivano all’arrembaggio con pestoni, calci, magliette strappate e guance arrossate. Nostra madre aveva un tempo di rottura compreso tra due e quattro minuti. All’improvviso si rendeva conto del baccano, smetteva di parlare di nostro padre e gridava loro di smetterla. Dopo un breve silenzio, ricominciavano daccapo. Quindi mi chiedeva di intervenire.
“Ma lasciali, dai.”
Si prendeva la testa tra le mani.
Seconda occhiata: “Fai qualcosa”.
Non avevo idea di cosa fosse quel qualcosa, ma andavo in salotto e fingevo di saperlo. Di solito mi beccavo una scarpa volante, prima di alzare la voce.
“Soldati” dicevo. “Questo non va bene.”
Il piccolo, che aveva scoperto il turpiloquio, correva per la stanza sputando oscenità mentre il grande lo inseguiva con una cintura.
Nostra madre intanto gridava dalla cucina.
“Il primo che la pianta fa un giro sul motorino.”
Era un catorcio che usavo per andare all’università, ma loro passavano interi pomeriggi a montarlo da spento. Scattavano sull’attenti, pronti per la rassegna, sempre troppo tardi.
Nostra madre entrava in salotto e li guardava con occhi oltraggiati, già rossi di lacrime. Mia sorella la prendeva sottobraccio mentre loro cercavano nel mio sguardo una risposta a quel che stava succedendo.
Ero un generale che dava ordini incomprensibili.
Mia sorella aveva finito la maturità e voleva festeggiare. Così organizzammo una grigliata con i suoi compagni di classe.
Abitavamo dentro un parco forestale, in una bifamiliare sulla cima di un pendio erboso. In fondo c’era un prato con una quercia secolare, poi nient’altro che boschi. I nostri vicini erano persone tranquille che passavano il tempo al circolo del bridge. Erano anche i padroni di casa, ma non lo facevano pesare. Quando chiedemmo il permesso di grigliare nel prato, ci dissero soltanto di fare attenzione.
Il giorno del barbecue i soldati erano su di giri. Mi aiutarono a trasportare la griglia, i sacchi di carbonella, il tavolo e le sedie fin sotto la quercia. Facevano su e giù fischiettando canzoni dei cartoni animati.
Montai la griglia, rovesciai la carbonella e accesi il fuoco. I soldati trovarono dei bastoni e cominciarono a tirare di scherma.
“Perché voi due sfigati non la piantate” dissi “e già che ci siete mi portate una birra?”.
Lasciarono i bastoni e mi raggiunsero scambiandosi delle occhiate.
“Cosa ci offri?” chiese il soldato camicia.
“Ringrazia se non vi mollo una bastonata per uno.”
“Si fa niente per niente” fece l’altro.
“Ha ragione.”
Ci pensai su.
“Che ne dite di un giro in scooter?”
Restarono a bisbigliarsi nelle orecchie per alcuni minuti.
“Non ci stiamo” dissero infine. “Tanto non succede mai.”
“Ve lo dico io cosa succede ora.” Girai loro intorno. “Il primo che arriva con una birra, guarda l’altro dal sedile del motorino.”
Avevano smesso di respirare.
“Scattate, razza di ingrati.”
Corsero verso casa proprio mentre mia sorella scendeva con i primi arrivati.
Mi prese da parte con una scusa.
“È andata al supermercato” disse.
“Ci mancava qualcosa?”
“Doveva andare da qualche parte.”
Dietro di lei, i suoi amici provarono a intercettare i soldati per soffiargli le birre, ma quelli erano svegli, li schivarono e ci raggiunsero.
“Più tardi sceglierò il vincitore.” Presi le bottiglie e ne diedi una a mia sorella. “È la tua giornata” dissi. “Goditela.”
Si era alzato il vento e badavo ai lapilli. Dalla mia postazione osservavo mia sorella che parlava con le amiche, mentre i maschi le fissavano. Si erano tolte le magliette per prendere il sole. Più lontano, i soldati facevano lo stesso sdraiati nell’erba alta con un binocolo di plastica.
Con nostra sorpresa, mamma si unì alla festa. Mangiò le braciole, bevve una birra e chiacchierò con le ragazze. La sbirciavano appena si voltava, ma non dava segno di accorgersene.
Verso le sei, quando se ne andarono tutti, mia sorella decise che era meglio portarla a fare un giro in città. Era un loro rituale, stare insieme dopo essere state insieme a metà.
Chiamai i miei fratelli.
“C’è da pulire questo casino” dissi.
“E chi c’ha voglia.” Il piccolo incrociò le braccia.
“Nessuno” risposi. “Prima facciamo prima finiamo.”
Si guardarono come se ci avessero pensato anche loro, ma sentirlo a voce alta lo rendesse vero come una bastonata.
“Piegate le sedie, io penso alla griglia.”
Cominciarono a fare su e giù dal pendio in fila indiana.
Scavai una buca, ci buttai dentro la brace e smontai la graticola.
Portammo tutto nella rimessa accanto alla villetta, un vecchio fienile dove i vicini tenevano le cianfrusaglie. Il vento era forte. Mentre risalivo con le ultime sedie, un gruppetto di bicchieri rotolò verso il bosco.
“Avete fatto un buon lavoro” dissi ai soldati una volta finito.
Per tutta risposta, alzarono le mani nel saluto militare. I loro sguardi continuavano a schizzare verso il motorino parcheggiato più avanti.
“Soldato culo” cominciai. “Come si è comportato il soldato camicia?”
“Mi ha fatto vedere le fiche col binocolo.”
“Questo è un bene, soldato.” Feci qualche passo lungo il vialetto. “Mi piace la solidarietà tra commilitoni.”
“Quando ci fai guidare quel cazzo di motorino?”
Il grande scoppiò a ridere con le mani sulla pancia. Non riuscivo a dire niente e restai così finché non vidi la colonna di fumo.
Si alzava dal bosco, via via più scura.
Quel che successe dopo è confuso. I vicini rientrarono in tempo per assistere al disastro. Inutile aggiungere che a settembre non rinnovarono il contratto d’affitto. Mia madre e mia sorella tornarono a cose finite e ci toccò raccontare tutto non una, ma dieci, venti volte. Ancora non sapevamo niente del nostro futuro ma quella sera, mentre il piccolo raccontava la sua versione dei fatti sputando una parolaccia dietro l’altra, tornammo a ridere insieme.
Raggiungemmo l’incendio con le bacinelle ormai vuote: l’acqua ce l’eravamo persa correndo in discesa. Entrammo nella zona calda. Le fiamme, simili a tanti accendini, mangiavano l’erba sul limitare del bosco. Si erano attaccate a due alberi piccoli, tra poco sarebbe toccato a quelli del parco nazionale.
Il calore scottava la pelle, il fumo ci accecava. Trovai un ramo e lo battei sulle fiamme con l’unico risultato di spargerle intorno. Mi disperai.
Ero pronto a finire sui telegiornali come piromane, colui che in pochi minuti aveva distrutto secoli di lenta, paziente vegetazione. Feci dietrofront per uscire da quell’inferno.
Fu allora che vidi mio fratello piccolo. Era davanti a un arbusto in fiamme con le brache calate. Pisciava come se niente fosse, tranquillo nel bel mezzo dell’incendio. Accanto a lui, suo fratello faceva lo stesso. Le bacinelle erano buttate lì vicino.
Si voltarono e mi sorrisero. Con le mani libere si tenevano i capelli sopra la fronte. O forse era un saluto militare, non lo ricordo. Come non ricordo chi o cosa spense l’incendio.
Però ricordo che alla fine tirai fuori il mio affare e pisciai sulle fiamme.
Mentre lo facevo, guardai i miei fratelli con fierezza. Erano i miei soldati. E si erano meritati il giro su quel cazzo di motorino.
Alice Bux
È un racconto fresco, leggero come il vento.
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