La fronte è spinta in fuori e gli occhi neri sono due capocchie di spillo. Rido la risata di un cavallo: tutta bocca, tutta denti, una lingua gigante. Mara piange: cosa ti è successo? Le sue mani sulla mia gonna stringono la stoffa, o la accarezzano per capire se è sempre la stessa alla quale è abituata ad appoggiare le guance. Mi ha sempre toccata tanto, lisciata, percorsa. Queste perlustrazioni mi danno una sensazione di rilascio, di sonno.
Non che non mi sia mai successo di crollare un attimo per rizzarmi subito perfettamente vigile e spaventata. Le notti, aveva detto il dottore, sarebbero state un po’ un problema all’inizio. Mi aveva dato delle gocce per rilassarmi.
Mara non dorme. Non in corrispondenza del buio e della luce, né della cena o della colazione. I suoi ritmi sono disancorati dal mondo esterno. Può essere che si alzi alle tre e che non si dia pace perché ha fame di pizza. Ne tengo sempre in congelatore, insieme ad altre cose che non troverei la notte.
Mi giro di profilo, mi esce la pancia. Dondolo un po’, voglio capire come ingrandirla. Mara sgrana gli occhi: è grossa come se dentro ci fosse un vitellino.
Sono stata così quando l’avevo dentro. Ora si stupisce di me quando lei stessa era così poco umana la prima volta che l’ho vista, un anfibio. Un piccolo anfibio, le dico piegandomi ma Mara mi spinge. Il riflesso di un altro specchio ci proietta verso il soffitto, con le vite strette e i colli lunghi degli extraterrestri. Inclino il mio come un gambo con la corolla appesantita e sorrido, ma lei no. Ride spesso Mara, ha sempre una risata dentro gli occhi ma anche le sue risate sono disancorate dal mondo di fuori. Mi guarda spesso ansiosa di non so quali pericoli.
Sono le tue ansie, dice mio marito, suo padre. Non è voluto entrare qui dentro, ha detto che temeva di perdersi fra gli specchi, e con una strana euforia io mi ci sono rifugiata, Mara per mano. Ci siamo inoltrate nel labirinto. Infinite noi ci seguivano.
Un serpentone, ha detto Mara voltandosi per salutare la prima della fila che ha fatto altrettanto. Allora lei ha sfilato la manina dalla mia ed è corsa via inseguita da tutte le altre. Aspettami!, ho gridato un attimo prima di spiaccicare il naso contro un vetro. Vedevo solo la coda del serpente e le lacrime che colavano dagli occhi e dal naso mio e delle madri incapaci appese dietro di me. Le abbiamo inseguite, abbiamo svoltato sempre dalla stessa parte per una vecchia convinzione che sia questa la chiave di volta delle situazioni labirintiche e sempre vedevo le scarpine di vernice e gli orli delle gonne a motivi tirolesi. Le odiano quelle gonne mentre noi le amiamo. Le abbiamo comprate apposta per infagottarle come bambine di montagna, dentro paesini pieni di neve, dentro casette con caminetti, dentro lettini imbottiti di piume. Ma le mille scarpe scappano da noi e dai nostri quadretti e le loro risate riecheggiano da un vetro all’altro. Da un angolo all’altro. Ecco che le gonne tirolesi si condensano in una e Mara rimane sbigottita davanti agli specchi distorcenti. La raggiungo, le stringo la spalla con la mano, ingoio il fiatone e dico guarda un po’ come diventa la mamma quando la fai arrabbiare. Mi abbandono a distruggere la mia immagine, a fare delle mosse che la imbruttiscono, con la mandibola in avanti, la schiena ingobbita. Ci trovo un seducente piacere, come se spaventarla riequilibri un po’ i nostri poli. Il suo, ingigantito, preponderante, imponente. Il mio, esile come il gambo del girasole quando il caldo l’ha stremato. Mi sento così quando ci penso, inseguita da mille, affannose, me.
Ma l’ha catturata un altro specchio ancora, la rimpicciolisce quanto un uccellino implume. Come quando in ospedale davanti alle sue coscettine mi meravigliavo e la chiamavo uccellino piumoso.
Diventa più piccola, come quelle bamboline che stanno nelle scatole dei fiammiferi.
Esco dagli specchi.
Sara Gambolati
Intenso e originale. Mi è molto piaciuto.
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