Nel 1998 succedono due cose: Roberto Cuoghi inizia un percorso di metamorfosi che durerà sette anni e che lo porterà a trasformare la propria immagine fino a farla coincidere con quella di suo padre. La seconda è l’uscita di Buffalo ’66, film scritto, diretto e interpretato da Vincent Gallo.
Quindici anni dopo, durante la Biennale di Venezia, scopro Roberto Cuoghi quando resto ipnotizzato da Belinda, imponente rivelazione-scultura derivata dal sabotaggio della strutturazione nel sistema naturale. Roberto Cuoghi ci mostra quello che potrebbe succedere se il sistema naturale prendesse una direzione diversa da quella data, e il risultato è una struttura enorme, decentrata, completamente fuori baricentro. All’apparenza pesantissima eppure molto leggera, ricoperta da polvere dolomitica e cenere da pizzeria. In quello stesso momento, mentre leggo la storia dell’artista e della sua trasformazione, ricordo di aver visto Buffalo ’66.
“Mi devi aiutare.”
“A fare?”
“A diventare Vincent Gallo.”
“Chi?”
“Vincent Gallo.”
“Mai sentito.”
“Quello di Buffalo ’66, lo abbiamo visto insieme.”
“Ah, Buffalo ’66. Strano film. Strano bello.”
“Ecco. Voglio essere come lui.”
Nel sito ufficiale di Vincent Gallo, sezione merchandising, scopro che fare sesso con lui costa cinquantamila dollari (servizio disponibile solo per femmine NATE femmine) e il suo sperma per una fecondazione viene valutato dallo stesso Gallo un milione di dollari. Al di là della considerazione sulla nascita – femmine NATE femmine – l’offerta è valida per chiunque, nessun altro limite.
Randall Sokoloff scrive nel suo blog Absurdistry: “Poi ho scoperto Vincent Gallo e improvvisamente ho trovato uno scopo. Se lui ci era riuscito, avrei potuto farlo anch’io. Ecco un ragazzo che faceva il pittore, lo scrittore, il regista, il musicista e, cosa più importante, era un outsider. Era il James Dean dei miei tempi (ma molto più interessante) e, per quanto possa suonare ridicolo adesso, lo ammetto: volevo il fuoco che aveva lui. Ho iniziato a vestirmi come lui, a portare i capelli come lui. Presto la cosa mi prese la mano più di quanto avessi previsto. Qualcuno iniziava a dirmi che somigliavo a Vincent Gallo. Non avrei potuto desiderare un complimento migliore”.
“Ci facciamo un selfie?”
“Certo, un bel selfie. Un selfie come una coppia.”
“È il nostro primo appuntamento. Abbiamo solo parlato su Tinder un paio di volte.”
“Come se fossimo una coppia. Siamo una coppia e passiamo un sacco di tempo insieme. Stiamo sempre insieme, non ci lasciamo mai. Guardami come se ti piacessi, fai vedere che ti piaccio.”
“Come, scusa?”
“Che ti piaccio. Ma non mi toccare. Ci amiamo ma non ci tocchiamo, ok? Ci amiamo ma non ci tocchiamo.”
“Sei fuori.”
“Il selfie. Ti sei dimenticata di scattare il selfie.”
“Fattelo da solo un selfie, bello.”
Dimagrisco un po’ ma non abbastanza. Vincent Gallo è magro, sembra in forma anche se in modo strano. Io no, sono basso e cicciottello come un french bulldog.
“Che vuol dire essere come lui?”
“Come lui, esattamente come lui. Sotto tutti i punti di vista.”
“Ok. Ma perché?”
Non mi viene in mente niente, e allora cito Roberto Cuoghi.
“È un sabotaggio della strutturazione nel sistema naturale. Come se decidessi di deviare dalla direzione prestabilita, capisci? Corro in una direzione diversa da quella della genetica. Altra velocità, altro tutto.”
“Se capisco? Mica tanto. Ma io che posso fare per te?”
“Tieni.”
Gli passo una foto, un primo piano di Vincent Gallo.
“Li voglio così, proprio come lui.”
“I tuoi sono più corti.”
“Troviamo il modo per allungarli.”
Ascolto gli Yes tutti i giorni. Mangio bacche di goji, cacao e semi di chia. Bevo latte di capra non pastorizzato. Niente alcol, e ovviamente niente droga. Continuo a leggere di Vincent Gallo, a guardare e riguardare i suoi film e le cose che dipinge. Ad ascoltare la sua musica. Vado in palestra ma soprattutto corro, e indosso lenti a contatto azzurre.
Su Tinder metto due foto. Una mia, una di Vincent Gallo. Il primo match, nel suo primo messaggio, mi chiede chi sono dei due. Allora capisco che non sta funzionando e che forse non funzionerà mai.
Compro tutto il merchandising a disposizione. Indosso un cappello marrone appartenuto a Vincent Gallo (settecentocinquanta dollari), il trench Burberry che ha usato durante Moscow Zero (novecento) e ho nell’armadio la giacca di pelle con frange, anche questa marrone, indossata da Gallo durante un concerto (quattrocento). Tutta roba autentica, tutta roba con la sua firma.
“Pronto?”
“Ciao mamma.”
“Ciao, come stai?”
“Sto bene, mamma. Ho bisogno di soldi.”
“Oh Gesù, che è successo?”
“Devo comprare il tuxedo indossato da Vincent Gallo a Cannes quando è stato presentato The Brown Bunny.”
“Il che?”
“Tuxedo. Un completo elegante.”
“Ti sposi?”
“No mamma, non mi sto per sposare.”
“Hai più di trent’anni, Vincent. Devo ancora chiamarti Vincent?”
“Lo so che ho più di trent’anni, mamma. Conosco la mia età, leggo tutti i giorni la carta d’identità per non dimenticarmela. Mi chiamo Vincent, certo che devi continuare a chiamarmi con il mio nome.”
“Hai almeno una fidanzata?”
“Ho una fidanzata, mamma. Domani veniamo a mangiare, d’accordo? Domani veniamo a trovarvi.”
“Domani non posso, tesoro. Domani andiamo a pranzo con Carla e Francesco. Come ogni giovedì, ricordi?”
“Dici sempre che mi vuoi vedere e quando voglio venire non puoi mai. Volevo presentarti la mia ragazza.”
“Un’altra volta, tesoro. Presto, te lo prometto.”
“Posso avere duemila dollari?”
“Dollari?”
“Sì, mi servono dollari.”
“Per un completo elegante?”
“Per un completo elegante. Duemila e ottanta dollari.”
Nei titoli di sei canzoni del disco Recordings of Music for Film c’è la parola “brown”. Il marrone è un colore bellissimo, sottovalutato. Penso a Billy Brown, a The Brown Bunny e a Jolie Brown, a quanto mi piaceva quando ero ragazzo.
Sono magro come non lo sono mai stato. I capelli sono lunghi abbastanza. Ho un altro appuntamento, non mi ha chiesto chi sono dei due.
La guardo, è bella. Non so cosa dire, non so mai cosa dire.
“Ci prendiamo una cola?”
“Sì.”
“E un dolce?”
“Sì.”
Voglio regalarle un biscotto a forma di cuore, penso di averla trovata. La conosco da venti minuti ed è già la mia Layla.
Lei prende una cola e una crostata all’arancia, io una limonata e un muffin. Siamo distesi su un prato e il sole ci acceca. La guardo attraverso il bicchiere di plastica, una limonata di luce che la rende ancora più bionda. Ho paura di fare rumore con la cannuccia. Non sono educato, non so mangiare senza fare briciole, non so bere dalla cannuccia senza fare rumore.
“Sai che ho pensato, quando ti ho visto la prima volta su Tinder?”
“Cosa?”
“Che eri bello.”
“Nessuno mi ha mai detto niente del genere.”
“E che somigliavi a Joaquin Phoenix. Quello di Walk the line, Johnny Cash.”
“So chi è Joaquin Phoenix. Conosco gli attori, conosco il cinema.”
“Tu cosa hai pensato quando mi hai vista?”
Non so che dire, non so mai cosa dire.
“Tutto ok? Ho detto qualcosa di sbagliato?”
“No. Va tutto bene, non hai detto niente di sbagliato.”
“Lo vedo che c’è qualcosa che non va. Forse non ti piaccio. Puoi andartene se vuoi, non sarebbe la prima volta.”
“Mi piaci, mi piaci molto. È che volevo essere Vincent Gallo, non Joaquin Phoenix.”
“Vincent?”
“Gallo, Vincent Gallo.”
“Scusami, non lo conosco.”
“Fa lo stesso, non importa.”
“Non lo finisci, il muffin?”
“Joaquin Phoenix, cristo santo.”
“Scusa.”
“Va bene.”
Torno a casa, mi tolgo il tuxedo. Passo le dita sulla firma, nel risvolto dei pantaloni. Sento il suo nome scorrermi addosso, quel nome che doveva essere il mio.
Volevo davvero essere Vincent Gallo.
Mi chiedo se alla fine Roberto Cuoghi ci sia riuscito, a diventare suo padre.
Prendo il telefono, cerco il numero della mia Layla. Squilla una volta, due, cinque. Non risponde.
Provo più tardi, più tardi andrà meglio. Più tardi va sempre meglio.
Sergio Oricci