Occorre tener conto del bianco. Si noti la diffusione sull’intera area del vetrino. Trapassato il bianco, si svela il prato dedicato a Dudareaut Fossol. Il giardiniere di Rochy ha fatto un buon lavoro, imponendo toni vivaci ai sentieri traversi dell’Institut du Novaville. All’ingresso del parco, riposa una pietra lacunare su cui è riportato un passo del Burami, enciclopedia universale: “Sul perché è nostro compito imbalsamare il tempo: le vicissitudini morali dei buoni propositi conducono a giusti sovvertimenti. Gli studi sulle novelle molecole impongono esto spirito di rivoluzione. Non siate grati o debitori, ma interpreti del cambiamento”. Firmato Attile Talambot.
Sicché, all’istituto, risulta un atto di languida ostilità giudicare il tempo per vie tradizionali. Superati i primi oblii, la società si presuppone distante, le clessidre poco più che nostalgia e gli influssi sulla collettività obbligano a rivedere il concetto di natura (o di nostalgia). “Perdutamente afflitti” obiettava Lachayom, emerito del comitato anti-istituto, al lato destro del tribunale, in quel novembre stranamente torbido. La logica arcana di Dalus presto sconfessata: perdere tutto per non perdersi mai. Comunque, il tribunale di Stolichy non ha sentito ragioni, proclamando la comune tassa a finanziamento dell’istituto, i cannocchiali e tutto ciò che ne consegue. Si dice che a Talambot interessasse il bene comune, l’effimera convivenza di esseri capaci di stravolgere la singolarità. Alla base del piacere economico, poi, l’idea della comunità: ristrutturare l’edificio, rivalutare i giardini precedentemente appartenuti a Marie Bruland, nobildonna di ricca famiglia, che discendeva da un’antica componente affine all’Imperatore, che discendeva a sua volta da un enigma. Così, nel solco delle proprietà ministeriali finite all’asta, l’imprenditore Vasilouas aveva congiunto diversi soci per finanziare le idee di Talambot, fervido fantasista in quanto a labirinti, coi cittadini felici di aderire in prima persona, obbligo civile di retro-stampo illuministico. L’edizione quinta del Burami è la più completa a riguardo, dove tutto è spiegato nei minimi dettagli: “esemplare imbalsamato”, proprietà dell’istituto e attualmente in prestito, sino a termine rapporto, a Corinne della 91, sempre aperto sul tavolino di plastica grigia mentre lei, esile brunetta, osserva dal cannocchiale l’orizzonte oscurarsi e riempirsi di ipnotismi rosa ambrati. Il mare di Varengeville non le è mai stato tanto vicino, forse più vicino che allora. È nel raggio di pochi attimi che il gioco degli orologi resiste all’immagine: la caduta verticale della linea pensante, il segno che Corinne avverte per avvicinarsi al Mandala, vedendosi mossa dal sonno del divano alla vigile allucinazione del cannocchiale. Con sguardo costante dalla finestra, Corinne osserva due giovani figure che camminano per il giardino. E, sedendo la panchina di pietra a lato del corso dei cipressi, volgono la schiena al vuoto di quelle che sembrano nuvole. Corinne, ma potrebbe anche essere Brician della 15, eppure non è detto che non fu Mahuf della 77 prima di spegnersi sui rimpianti del Tradat, senza resistere alle tentazioni dell’infanzia. Forse Renée dall’altra sponda del giardino, nell’impervia zona per cuori deboli come gocce di cromo fatuo. Superando il monumento ai martiri che il giardiniere ha voluto apporre al corridoio centrale, si trova la fontana, essere extra-pensante che osserva il labirinto piangendo acqua con una certa muta eleganza (come si fa con le cose di certo dolore). Nessuna mano sul mento. Nessuna visita degli Orchi. E Rod della 22 passeggia sempre seguendo ordini perpendicolari. Decumano instancabile. L’obliquità è annullata dai due ragazzini in chiacchiera, sorridenti, si direbbero sereni, mentre solcano il lato sud dove c’è sempre odore di spezie, ma forse infondo solamente di bianco. O rosa molto pallido. Non è detto non siano le nuvole. E tornando alla finestra, Corinne in clima osmotico si piega alle immagini. Quindi, scatta una fotografia in cui si mescolano vaghi segni dei quadri appesi alle pareti del Michel Ciry. Il sentimento del tempo non le è ancora totalmente sconosciuto, così che gli anni di Parigi si presentano sotto forma di un sacerdote che le batte il pollice sulla fronte, nel rintocco di campane assordanti poiché padre Stephane voleva farsi udire sino a Montmartre. Corinne non si commuove, lampo severo tra i due uomini (è quasi certo che fossero uomini ormai) che ridono ancora, ma sempre più lontano, i loro cannocchiali sul passato, non ancora le nuvole, vapori pigri sulla collina che protegge l’istituto e ospita il primo cannocchiale di Talambot: reperto storico, vinto dalla sacra vena di ciò che inaugura e devia per sempre. Ancora nessun Orco a passeggiare nei dintorni. E la 91, parallasse di maggior rischio, è la camera che offre la miglior vista sui ricordi condivisi, così come sul retro dell’edificio: lo spiazzo di ghiaia conduce le moltiplicazioni del giardino a perdersi tra gli orti in cui alberga un’oscura flotta di insetti.
In virtù della sua fredda opacità, Corinne rinnega le ossessioni e si china per raccogliere un plico di fogli precipitati sul pavimento. O così le sembra. C’è un rumore fuori dalla stanza, il brusio di alcuni visitatori. Corinne riconosce i passi pesanti degli Orchi. Intanto si agita, indaffarata nel cercare di non perdere il presente, che riposa dentro la valigia trascinata con sé dal primo giorno, due settimane prima (se ha senso parlare di settimane), le pozzanghere di Rue Villon, fino al tram con capolinea alla Gare de Lyon, tappa obbligata per raggiungere l’istituto, abbandonando gli automatismi della quotidianità. Basta uno sguardo rapido al cannocchiale, spremere appena il pensiero per ritrovarsi. Ma nella sua dispensa mentale, riconosce soltanto l’appiglio su cui s’allunga per la terza volta da quando si è svegliata. Il cannocchiale. Mai esagerare, inesorabile attraversare la paura del mento che si posa, la fronte tesa come fossero le mura che circondano il viale distrettuale, e il treno fino al confine per essere l’istituto e divenire cannocchiale. Che cosa dovrebbe fare se non aprire la porta? Ma ciò vorrebbe dire abbandonare i lampi eterei dove si riconosce migliore, e ciondolare sino alla porta con il sorriso segreto di chi ancora non è arrivato a destinazione. No. La sabbia fradicia e una birra-vetro-gelida sono attrazioni più nitide, Saint-Valery si mostra speranzosa nonostante le vertigini e caldo il vento al limite della fessura (scrutato a lungo). Una signorina coi capelli castani e lisci la sta aspettando per andare ai Bois des Moutiers, un cenno con l’indice. È colta da un vortice di assoluta felicità nell’abbracciare frammenti velati da garze porose. La cruna dell’ago si spezza sul punto centrale in cui il prato si confonde con le calze della signorina (forse sua madre? Le somiglia) e inseguire il punto sino alle volute di Saint Sernin, nuvole sciolte in granelli trasparenti, col movimento oculare dirottato dal riflesso del vetrino che s’impolvera. La porta è intenta a richiamare, invasa dal rumore che si fa sempre più sordo, come l’ingresso sott’acqua, come la voglia di rinunciare e darsi alla corrente, mentre i passi della signorina si fanno sempre più felpati, cangianti come l’aspetto a seconda dell’inclinazione del cannocchiale che tentenna, rivolto al tramonto sulla Senna, che appare come il tramonto su Novaville, che ogni sera si pronuncia identico, molto spesso ignorato o compresso nella voragine di ripetute nostalgie. Così, le voci s’occultano nel bagliore di un sole ammutolito ed esausto, sino a coincidere perfettamente col suono dell’uscio abbattuto dagli ispettori dell’istituto che infrangono l’intimità violacea della stanza, nel tentativo di inseguire inutilmente una Corinne lontanissima e distesa sul pavimento. Una mano al Burami, l’altra sul mento. Nessun mattino possibile, allora gli Orchi potranno danzare tutta la notte sopra le nuvole.
Leonardo Gatta