Tuffi liberi

Caccia al tesoro

I gemelli iniziarono a urlare all’unisono la stessa frase: “L’abbiamo trovata, l’abbiamo trovata!”
Mentre lo dicevano saltavano stringendo con le quattro manine un foglio di carta.
Poi il gemello biondo disse “basta, così lo rompiamo” e si fermarono.
Il gemello moro tirò fuori dalla tasca un pennarello e tracciò sul foglio una specie di X, ripiegò il grande foglio per sei volte e lo ripose nella tasca dei pantaloni.
Il biondo prese in mano il pezzetto di metallo arrugginito e storto che assomigliava a una chiave e rimasero a osservarlo. L’avevano trovata, finalmente. Quella era la volta buona.
Corsero fino a casa.

“Dai prova tu, svelto, che fra poco rientra papà.”
Il gemello biondo prese il pezzetto di metallo e provò a infilarlo nella serratura. Sembrava quasi essere entrato. Allora il biondo e poi anche il moro iniziarono a dire “l’abbiamo trovata, l’abbiamo trovata!”
Ma dopo qualche tentativo entrambi capirono che non era lei. Che non era la chiave giusta nemmeno quella volta. Arrabbiati, iniziarono a battere i pugni sul forziere. Poi uno dei due disse “piano, così fai male alla mamma.”
I gemelli e il padre si sedettero al tavolo della cucina. Cenavano ma riuscivano a pensare soltanto all’ultima chiave trovata. Sembrava proprio quella giusta. Magari l’avevano solo infilata male o non avevano spinto abbastanza forte.

Un giorno, molti anni prima, i gemelli avevano iniziato a chiedere al padre se loro ce l’avevano una madre. Lo chiedevano prima di addormentarsi, la mattina a colazione, mentre facevano i compiti, mentre vedevano un film tutti insieme.
Alla fine una sera, stanco e preso alla sprovvista, il padre aveva detto di sì: una madre loro ce l’avevano. Aveva detto che si trovava in un posto protetto, dove nessuno le avrebbe potuto fare del male.
“Come un forziere?” avevano chiesto loro.
“Sì, come un forziere” aveva risposto lui.
Sembrava una storia della buonanotte venuta male, una favola zoppa senza nessun lieto fine. Da quella volta i gemelli non avevano più chiesto niente e il padre aveva pensato che se ne fossero dimenticati.
Ma i gemelli non ne avevano più parlato perché pensavano di aver capito dove fosse nascosta la madre. Si ricordavano di aver visto in soffitta, quando erano più piccoli, un forziere abbastanza grande da poterci mettere dentro una persona. Allora erano tornati lassù, avevano accarezzato il legno, provato a sbirciare dalla serratura, attaccato l’orecchio alla superficie per sentire qualcosa.
“Sì, deve essere per forza qui dentro.”
“Ci deve essere una chiave da qualche parte.”
Così, ogni giorno dopo la scuola, i gemelli cercavano la chiave che avrebbe aperto il forziere. Avevano anche disegnato su un foglio una mappa dove segnare con una X le zone setacciate. Poi, quando trovavano qualcosa di simile a una chiave, correvano a casa e provavano ad aprire il forziere.
Erano passati cinque anni ormai. Ma non si era ancora aperto.

                                                                                                                          Arzachena Leporatti

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