Una volta avevo un’amica tremenda.
Sono sicura che pure voi, almeno una volta nella vita, abbiate avuto un’amica così: quell’amica che se tu le vuoi bene, lei ti ama; quell’amica che se tu le regali una margherita per il compleanno, lei invece ha setacciato l’intero vivaio; che se tu decidi di andare in vacanza a Roma, lei ti fa una sorpresa e ha acquistato un biglietto per il Giappone.
Quell’amica che se tu sussurri, lei urla; che se tu sei carina, lei è bellissima e dentro allo specchio c’è posto solo per lei; nelle foto l’obbiettivo mette a fuoco le sue labbra e il sangue le arrossa perfettamente le guance.
Quell’amica che non rischia di rimanere mai a casa la sera; quell’amica dalle carezze in acciaio, che se ti scortica è un gesto d’affetto, è sincerità da paura; quell’amica che se la trascuri ha lacrimoni come souvenir di tristezze lontane, pronti per te, ma tra un paio di ore ha un impegno, con un’altra amica, migliore di te.
Quell’amica che qualsiasi cosa tu scommetta, lei raddoppia, sempre, e in ogni caso, vince. Ma che dico! Qualsiasi cosa tu scommetta, lei triplica, quadruplica, la roulette cambia numeri per lei, non smette mai di girare a meno che lei stessa non decida. Quella roulette che è tutto il mondo e tutto il mondo è da capogiro.
E sempre, in ogni caso, stravince – anzi, di più, diventa regina del casinò e l’inquinamento luminoso è tutto in suo onore e le discoteche prendono il suo nome, le piste da ballo si consumano al ritmo dei suoi passi, i drink sono sempre gratis.
Quell’amica che non riesci mai a buttare via dalla tua vita, che se la rinchiudi dentro un armadio trova le chiavi per uscire, e indosso ha i tuoi vestiti migliori; se la nascondi sotto al letto, la mattina è lei ad aprire le tende per te.
Quell’amica che se la uccidi, la vita fa un’eccezione e la rivuole indietro.
Quell’amica di cui parlo è un’amica pesante d’avere, occupa tutto lo spazio del letto per sé. È l’amica del cuore, all’ombra del quale tu rimani zitta.
Ho cercato di ribellarmi, credetemi, sul serio, ma non ci sono riuscita.
Ho provato ad alzare la testa, urlare, ma qualcuno toglieva sempre l’audio.
È stata una lotta difficile, ho bussato fino a farmi sanguinare le nocche. Volevo uscirne.
E lei, intanto, era bellissima, eccome se lo era.
Tenere il suo passo era uno sconsiderato atto d’esistenza: pericoloso il ritmo delle sue anche sotto i fili della luce, tacchi da vertigine che affonda e poi risale per le gambe. Per non parlare dei rossori causati in giro. Se passa lei, il semaforo arrossisce e ferma tutte le macchine.
Cosa rara per lei il dolore, cosa da miracolo.
È in quel momento che ha più bisogno di te.
In quel momento mi spoglia, un capo d’abbigliamento dopo l’altro, e io manichino rimango di legno, in vetrina in allestimento. In quel momento indossa i miei panni, rovista i miei trucchi.
Non ha bisogno di specchi. Le basta guardarmi negli occhi.
Sorride. È uguale a me.
Il mio petto discioglie affanni innalzandosi e sprofondando di vergogna. Il fiato è corto. Lei è tranquilla. Sottrae gli orecchini dai miei lobi, la collana di perle dal mio collo da condanna. Poi è pronta. È sempre pronta per le telecamere.
Non c’è bisogno di avvertirla. Lei prevede gli obiettivi. Sa quando stanno per arrivare e si mette in posa, arriccia le labbra, passa una mano tra i capelli, sospira.
Poco prima che la luce si accenda, ci rinchiudiamo in due scatole poste sul palco. Del suo corpo lei mostra la testa, del mio corpo fuoriescono solo le gambe.
La luce si accende e un prestigiatore arriva a segarci.
È lei che ha il compito di urlare, io di agitare i piedi prima del taglio decisivo.
Eppure, anche se sono nascosta, vedo tutto.
Quando lo spettacolo finisce, è lei ad aver mostrato la faccia, è lei a ritornare sul palco e rivolgere uno sguardo a te, il suo pubblico, strizzando di poco l’occhio.
E tu applaudi, comunque.
Fai anche il bis.
Fai anche il bis per quell’amica che tu non sarai mai.
Vincenzo Grasso